Operazione “Trota d’Oro”

Che tempi, quelli d'inizio secolo. In principio era il Senatore a vita Giulio Andreotti: novantatré anni (tutti in un gobbo solo), nel maggio del 2012 era stato ricoverato al Policlinico "Gemelli" per un malore. E, d'improvviso, qualcuno aveva iniziato a credere ai miracoli. Vale a dire che la revisione della spesa pubblica funzionasse sul serio.
Mala tempora currunt! La crescita economica dello stivale era soltanto risucchio, scoppio e masticamento di chewing gum. E ciò benché l'adorabile Premier Mario Montenstein, capitano di lungo corso chiamato per levare i testicoli dell'Italia dalla morsa, premesse sull'acceleratore (delle auto blu). Eh, sì: il Premier manteneva la rotta, era un duro. In molti si lagnavano di Montenstein. Alcuni dubitavano senza cognizione di causa. Altri miagolavano nel buio. Altri ancora squittivano. Dunque, si sappia: se non ci fosse stato lui... ce ne sarebbe stato un altro. A volte converrebbe desistere da simili elucubrazioni.
Nel corso della crisi economica dei primi decenni del XXI secolo – che aveva rimarcato l'esiguità dei salari a fronte di una tassazione da cappio al collo, comportato licenziamenti a nastro e marachelle ai danni della società incaricata della riscossione nazionale dei tributi, tagliato a lasagne le famiglie e incrinato la fiducia nella politica tutta, finanche i consensi del Governo – un fattaccio su tutti aveva dominato la scena: l'affaire Lega Nord.
Infatti, nell'aprile del 2012, era scoppiato lo scandalo: una serie di accertamenti sui conti del Carroccio da parte di diverse procure aveva evidenziato che qualche palla poteva essere in fuorigioco. Tra le altre cose, era emerso che il tesoriere del partito, Francesco Belsito, pareva avesse attinto del denaro dalle casse della Lega Nord per acquistare fondi in Tanzania e per investire in lingotti d'oro e diamanti (inoltre, sembrava che l'oro e i diamanti fossero stati divisi fra lo stesso Belsito e altri esponenti del movimento). «Ho agito nell'interesse della Lega», disse ai magistrati l'indagato, preoccupato ma sereno. All'epoca subito espulso dal partito, l'ex tesoriere aveva sostenuto di essere sempre stato un buon amministratore e di aver eseguito tutte quelle operazioni per conto del movimento.
L'attacco mediatico non aveva avuto precedenti. Il Carroccio era stato alluvionato da una grandinata di improperi e pernacchie. Innocentisti e colpevolisti se le erano date di santa ragione. Ma la presunzione d'innocenza è una delle più grandi conquiste di ogni civiltà giuridica: difatti il presunto faccendiere avrebbe invece meritato la medaglia d'oro al valor civile. Per quale motivo? Perché nessuno parlò mai dell'Operazione "Trota d'Oro". E fu come un esorcismo poiché, se nessuno ne aveva parlato, risultò al mondo che quell'operazione non era mai stata concepita né messa in atto. Niente di più falso, ahinoi.
Giornali ed emittenti sempre più uguali e omologati al pensiero unico dominante, quando non incentrati sul rinforzare le mura del rancore e dell'amarezza, avevano proposto servizi giornalistici su temi di bruciante attualità, quali George Clooney con i suoi irrinunciabili "wow!", il clamoroso flirt di Belen Rodriguez con Homer Simpson, i rapporti burrascosi tra l'ex Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione Renato Brunetta e i suoi vicini di nanerottolo, il figlio illegittimo di un sacerdote di Milwaukee che aveva preso tutto da suo padre (anche la sifilide) e l'agghiacciante scoreggia di uno yak di montagna scambiata da un marine di stanza in Afghanistan per fuoco amico: però mai avevano fiatato circa l'Operazione "Trota d'Oro". Sarebbe stato doveroso non fare alcuna omissione in seno a uno scandalo di siffatta delicatezza e di così vasto interesse come l'affaire Lega Nord: tuttavia l'Operazione "Trota d'Oro" restò ignota al volgo. Entità stratificate, ma invisibili, irraggiungibili, la seppellirono in un file criptato di un PC appartenente al burattinaio supremo, un baffuto agente dell'A.I.S.I. (l'ex S.I.S.De., mica la Loggia del Leopardo, poffarbacco!).
L'idea dell'Operazione "Trota d'Oro" era nata dalle ceneri della "Giornata della Fede" del 18 dicembre del 1935, iniziativa interna alla campagna "Oro alla Patria", organizzata dal regime mussoliniano e finalizzata a promuovere l'autarchia economica dell'Italia in modo da consentire al paese, con la collaborazione comune, di superare le schiaccianti difficoltà di quei tempi. Quel giorno migliaia di cittadini avevano consegnato volontariamente l'anello matrimoniale alla nazione, ricevendone in cambio uno di ferro: in ventiquattro ore vennero raccolte milioni di fedi nuziali, ossia decine e decine di tonnellate d'oro e argento.
Questa l'idea: replicare l'iniziativa del 1935. Nella sua padana ingenuità, ad averla avuta era stato un tizio indurito, amareggiato, la cui unica consolazione era l'odio, un tale che trascinava da anni le stanche membra nonostante i postumi di un grave mancamento. Le ragioni di una simile idea? Perché voleva fare del Carroccio il primo partito della penisola e di se stesso il glorioso imperatore d'Italia. Il tizio amareggiato era stato la mente. Francesco Belsito, il braccio. Che strana coppia.
Erano questi, in sintesi, gli obbiettivi dell'Operazione "Trota d'Oro": per svincolare l'Italia dalle tendenze internazionali, si sarebbe dovuta costituire, in virtù della donazione di milioni di anelli matrimoniali da parte dei cittadini della Padania e poi dell'intera nazione, una titanica riserva aurea, un immenso sovrappiù di oro rispetto alla riserva monetaria nazionale già esistente. In seguito, col ricavato della vendita di questo surplus aureo ai paesi esteri (tipo il Burkina Faso o Paperopoli) sarebbe stato aggredito il debito pubblico e trovato anzitempo il bandolo della mattanza. Farneticazioni? Forse. O forse no. Comunque, ecco a che cosa erano serviti i lingotti d'oro dello scandalo: per l'avvio dell'operazione. Erano solo fedi nuziali fuse, quei lingotti. Beh, ad onor del vero, nell'affaire Lega Nord si era parlato pure di diamanti e di fondi in Tanzania. Ma non bisogna sempre spaccare il capello in quattro. Talvolta si deve avere fede. Già, fede. Come quella del 18 dicembre del 1935.
Unico ostacolo all'Operazione "Trota d'Oro": il baffuto 007 dell'A.I.S.I. Quel diavoletto birichino, oramai raggiunte la saggezza, la maturità e l'incantevole limpidezza del genio strategico, per nulla intenzionato a lasciare le redini dell'Italia alla precitata strana coppia, ululò alla propria legione: «Al mio via, scatenate l'Interno!». E fece tutti flambè. Fece capire chi davvero dettava le regole, a chi si dovevano sempre chiedere le chiavi del cesso. Strapazzò di coccole il tizio indurito, Belsito e altri membri del Carroccio. Insomma, l'Operazione "Trota d'Oro" venne insabbiata. I media la ignorarono. E nessuno ne seppe niente. Perché i servizi di intelligence, quando vanno a braccetto con la stampa, talora servono più che altro per tutelare il potere dei Palazzi o complottare ai danni della sovranità popolare, non tanto per occuparsi della sicurezza o fare prevenzione.
«È stata una gran bella esperienza, questa. Sono contento di tutto, della mia vita e di ciò che ho realizzato», avrebbe confidato, alla fine della giostra, il baffuto agente segreto ad alcuni suoi fedeli pretoriani. Aggiungendo, mefistofelico: «E adesso, per favore, casta».

(Giugno, 2012)

A bombazza!

Che tempi, quelli d’inizio secolo. In principio era Lui, Silvio Berlusconi, quello del Primo Avvento, che, a fasi alterne dal 1994 al 2011, fece il Premier a tempo perso e il macho a tempo ritrovato. Laureato in legge in fila per tre col resto di due, per anni mantenne l’Italia della crisi in fase istruttoria, giammai facendola approdare a quella dibattimentale. Manager rampante, con Lui l'esecutivo e il capitale privatizzarono anche il soprannaturale, trasformando la penisola in una SpA gigantesca: SpA, cioè “Soltanto Per Arcore”. Fervente cattolico, la tentazione della rettitudine fu per Lui fonte di vizio: perciò il buon Dio gli impose per tutta la vita di resistere a tale tentazione. Eccellente statista, basò sempre le proprie obiezioni solo sul presupposto che gli altri avessero torto e dei problemi e delle tragedie ebbe ogni volta una visuale a volo d’uccello. Insomma, in bilico tra altera ritrosia e paurosa castità, un sultano coscienzioso, che mai venne colto a sgassare dalle terga senza cognizione di causa.
Siccome fin dall’alba dei tempi l’aveva pensata esattamente come se stesso, pertanto ritenendo Lui che la vorace credulità del popolo fosse il principale strumento della macchinazione governativa, nell’ottobre del 2011, considerato il rigor mortis economico dello stivale, rilasciò una dichiarazione credibilissima che colpì persino i Teletubbies, le alpache del Perù e i bradipi di Castellammare di Stabia: «Stiamo lavorando su riforme decisive per il presente e per il futuro del Paese». Verosimilmente, stava pensando ad una nuova pillola contro il deficit erettile. Fu davvero troppo. Un mesetto dopo il principe ridanciano rassegnò le dimissioni da Presidente del Consiglio dei Ministri: veniva, prima d’ogni altra cosa, la sua rata del mutuo.
A ruota si manifestò l’Altro, Mario Monti, quello del Secondo Avvento. L’Altro, il sobrio gran visir dell’economia, agnello per natura e lupo per professione, che ad ogni inedita catastrofe riusciva comunque a mantenersi anormalmente normale. Campione di robotica temperanza, ad ogni piè sospinto rotto alle fatiche e alle astuzie dell’UE, soltanto col controtorpore ieratico seppe rispondere alla messinscena fantozziana del Primo Avvento. Nell’Italia di quei tempi, il Governo proponeva e il Parlamento decideva: senz’altro decideva dopo la campagna acquisti. Difatti, il 16 dicembre del 2011, il decreto salva–Belpaese del misurato Primo Ministro venne approvato dalla Camera dei Deputati e, di lì a poco, a seguito dell’esame del Senato, avrebbe incassato il via libera definitivo. Ah beh, sì beh: ravvisare “giustizia sociale” in quella manovra, in altre parole l’impegno nel contrastare abusi, sperequazioni e “corruzioni istituzionalizzate”, era come liberare per sempre il circondario napoletano dall’immondizia. Vale a dire: un sogno nel cassonetto.
Eppure, qualche settimana prima, a Palazzo Giustiniani, in conferenza stampa, per una volta talmente eccitato che si era messo la lingua in bocca da solo, l’Altro si era così espresso: «Non ho mai detto “lacrime e sangue”, ma sacrifici forse sì». Sacrifici “forse sì”?! Sveglia! Giù dalle brande! Altro che demagogia e populismo: contro il mondo del lavoro e le politiche del welfare, fu un goal a porta vuota. Che ne era stato delle misure in grado di colpire con massiccia efficacia l’evasione fiscale e i grandi patrimoni? E di una riforma della previdenza che non fosse scaricata soltanto sulle spalle di lavoratori e pensionati? E della concreta e sostenibile riduzione dei costi della politica? E di una riforma fiscale che alleggerisse la tassazione sui redditi da lavoro dipendente e da pensione? Ah beh, sì beh: niente di draconiano sotto il sole, se non nei confronti dei soliti noti. Un’automobile aveva attraversato la strada sulle strisce pedonali ed era stata investita da un cinghiale: poiché ci sono sempre alti accademici disposti a preservare il mondo dagli orrori del libero pensiero.
Il Primo e il Secondo Avvento avevano avuto diversi punti di contatto. Ma l’idea fissa per eccellenza – da Lui fatta tradurre in termini tecnici, dall’Altro fatta, se non altro, prospettare – era stata quella di voler riformare ad ogni costo l’Articolo 18, in particolare la norma sui licenziamenti, riscrivendo le discipline che delimitavano l’area del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, ovviamente a discapito del lavoratore. Riformare “ad ogni costo”: anche a costo di sacrificare la cosiddetta “pace sociale”, peraltro già in parte compromessa per via dell’incresciosa cassa integrazione dell’economia del Bengodi.
Fine ottobre 2011: «Basta creare tensioni sulla riforma del lavoro che può portare a nuove stagioni di attentati. Ho paura. Ma non per me, poiché sono protetto. Ho paura per persone che potrebbero non essere protette e, proprio per questo, diventare bersaglio della violenza politica che, nel nostro Paese, non si è del tutto estinta», aveva osservato Maurizio Sacconi, l’allora Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, evocando così degli scenari terroristici. Bingo! Se un facinoroso, colto da distrazione, si fosse dimenticato di scagliare un estintore contro una vetrina alla prima occasione utile, Sacconi, sottile come una balena spiaggiata, con la sua pirla di saggezza almeno glielo aveva ricordato.
Da quale finissimo capello “pace sociale” smetteva di penzolare quale espressione vuota e diventava vita vissuta? Non sul capello dei ministri, dei deputati, dei senatori, dei politici di successo, dei capitani d’industria e dei giornalisti da salotto, impegnati tutto il dì a gustarsi Chupa Chups poiché benestanti: loro non potevano afferrare appieno il significato della locuzione “sopraffazione legalizzata” perché non avevano mai lavorato su turni in una catena di montaggio per 900 euro al mese. Non potevano sapere che cosa si provasse ad essere scambiati per sputacchiere umane nelle fabbriche e, di conseguenza, non conoscevano affatto la suscettibilità, la frustrazione e la rabbia che ne potevano conseguire. Erano dei dilettanti in merito e, dunque, se di ciò argomentavano con eccessiva fermezza, facevano dei passi falsi da operetta. Occuparsi di provvedimenti capaci di superare le tutele dello Statuto dei Lavoratori, oltretutto accendendo, nel contempo, micce di divisione sociale, poteva condurre alla mattanza…
Il 9 dicembre del 2011, la sorpresa di Natale. Un plico venne recapitato via posta a Marco Cuccagna, Direttore Generale di Equitalia, società deputata a gestire il servizio nazionale di riscossione dei tributi. Cuccagna lo aprì e questo esplose, staccandogli una falange e ferendolo agli occhi.
Ah beh, sì beh: Maurizio Sacconi, novello Nostradamus.

(Febbraio, 2012)

Mafia ad orologeria?

Che tempi, quelli d’inizio secolo. In principio era nientemeno che Roberto Saviano (mica quella vecchia cariatide di Hello Kitty, acciderbolina!): nel 2006, il suo “Gomorra”, bestseller à gogo, sbandierò quanto fosse stiloso per un boss della camorra assimilarsi a un antieroe dei gangster movies, con manifesta preferenza per il leggendario Tony Montana–Al Pacino di “Scarface”. Dal libro: “Se altrove ti può piacere ‘Scarface’ e puoi sentirti come lui in cuor tuo, qui puoi essere ‘Scarface’, però ti tocca esserlo fino in fondo”. Era patente come l’entità cinematografica – cool e sciccosa come un agnolotto al ragù – fosse seguita dai capicosca alla stregua di un modello mitologico da imitare, quale archetipo appartenente ad una fenomenologia evocativa. E, di conseguenza, germogliando da una zona mito così acconciamente coltivata, altrettanto incontrovertibile era, nei confronti dell’opinione pubblica, l’impattante (nonché morboso) potere comunicazionale dei fatti di mafia. Un potere gestito dai media? Beh, non solo dai media.
L’altro unto del Signore, al secolo Barack Obama, per meglio dire colui che sapeva parlare alla pancia degli americani (difatti tutti lo intendevano, perfino quei gran bietoloni dell’orso Fozzie e di Kermit la rana), aveva da tempo mangiato la foglia: in un’epoca in cui il mondo stava scivolando sul fondo della ritirata e nessuno si opponeva seriamente alla dissenteria collettiva, conveniva favoleggiare. Ovverosia: gabellare il cazzo per la cazzuola. Perciò, a cavallo di uno dei suoi più infausti picchi negativi di gradimento popolare, ecco che, nel maggio del 2011, il prodigio di Honolulu annunciò, guarda caso, l’uccisione di Osama bin Laden, capoterrorista di al–Qaeda, ad opera di un commando a stelle e strisce. Public enemy number one terminato, test del DNA e sepoltura in mare alla Ridolini, festeggiamenti e bagordi negli States: in sostanza, crediti presidenziali recuperati. Tutto vero. Si disse anche che Muammar Gheddafi, l’allora Raïs della Libia, il giorno dopo avesse interpretato in pubblico “La cucaracha”, addirittura inneggiando al Generale Pancho Villa, e che avesse concluso lo show con un carpiato in una fossa biologica. Vero pure questo.
Suppergiù nello stesso periodo, mentre il Cavalier Silvio Berlusconi stava elaborando in silenzio e con dignità il dolore lancinante per la fine della relazione amorosa con Valenshy, il Mini Pony rosa perlato, c’era chi realizzava degli intermezzi pubblicitari da antologia: il Ministro dell’Interno Roberto Maroni. Questi, nel corso del proprio mandato, aveva più volte rivendicato al Governo Berlusconi il merito di «una azione di contrasto alla mafia senza precedenti negli ultimi decenni». L’aveva rivendicato troppe volte, a dire il vero.
Il 13 maggio del 2011, la squadra mobile di Foggia e gli agenti del commissariato di Manfredonia acciuffarono Giuseppe Pacilli, considerato elemento di spicco della mafia del Gargano e ritenuto appartenente al clan Libergolis: guarda caso, proprio a ridosso del 15 e del 16 maggio, vale a dire delle elezioni amministrative in oltre 1.300 comuni della penisola. Maroni, che aveva molti difetti, ma di certo un pregio (quello della sincerità), affranto come una coppola nera, manifestò buia soddisfazione: «È stato assicurato alla giustizia uno dei più pericolosi latitanti in circolazione in Italia». Benedetto quel Ministro dell’Interno! Rilasciare dichiarazioni era per lui una rigenerazione artistica: all’assoluta frontalità della sua faccia si contrapponeva infatti l’aggressiva animazione del baffo, forgiando un poderoso effetto di insieme unitario, che tendeva ad annullare le autonomie e le asimmetrie dei particolari.
Nello stesso anno, per le commemorazioni della strage di Capaci, ossia l’attentato del 23 maggio del 1992 in cui avevano perso la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti della scorta, Maroni, plastico come non mai, con quegli occhialetti alla Austin Powers che controbilanciavano il contenuto drammatico dell’espressione del volto, approfittò dell’occasione per girare il consueto spot: «Negli ultimi tre anni abbiamo arrestato, grazie a polizia, carabinieri e magistratura, otto mafiosi al giorno in media e oltre trenta latitanti di massima pericolosità, senza dimenticare l’aggressione ai patrimoni della mafia». Guarda caso, uno spot realizzato proprio una manciata di giorni prima del turno di ballottaggio del 29 e 30 maggio, scaturito dai risultati del primo turno di votazione delle amministrative del 15 e 16 maggio.
12 agosto 2011: «Il nostro cuore gronda sangue quando pensiamo che il Governo non aveva mai messo le mani nelle tasche degli italiani: ma la situazione mondiale è cambiata, siamo di fronte a una sfida planetaria». Queste le parole di un Premier sull’orlo del pianto (un Cavaliere provato e tuttavia ancora impetuoso, che stava alla democrazia come Pierluigi Bersani stava a una coda di cavallo), proferite durante la conferenza stampa di illustrazione della manovra finanziaria più depressiva e più rimaneggiata della storia della Repubblica italiana. Come volevasi dimostrare: circa ventiquattro ore dopo, i carabinieri del Nucleo Investigativo di Napoli, guarda caso, catturarono il latitante Alessandro Iannone, reputato reggente del clan camorristico “Longobardi–Beneduce” di Pozzuoli (mica quel pacioccone dell’urside Po di “Kung Fu Panda”, perdindirindina!).
Gli stilosi e pericolosissimi Tony Montana (o, mutatis mutandis, la sagoma ectoplasmatica di bin Laden, nel caso statunitense), sia nascosti in piena luce che subdoli come zanzare tigre, servivano dunque per riesumare consensi quando il gradimento popolare dell’esecutivo colava a picco? Oppure per mietere voti in vista di elezioni? Mafia ad orologeria, quindi? Scandita presuntivamente da motivazioni politiche? Un’ipotesi forse argomentata in maniera artificiosa, forse del tutto destituita di fondamento, che però suscitava perplessità laddove insistesse nell’indicare la sospetta casualità temporale quale elemento comune.
Eppure sarebbe venuto il Giorno del Giudizio Universale. In cui, finalmente, alcune teste di casta avrebbero ammesso: «Io ero un mafioso». E, loro malgrado, mescolati dal fato alla schiuma dei gabbamondi e dei fuorilegge di ogni lignaggio e nazionalità, sarebbero stati giudicati anche loro: Giulio Tremonti e Angelino Alfano. L’uno, compiaciuto dei suoi ticket nervosi, sempre ad anatrare in televisione; l’altro, nomen omen (ma anche no), che per circa tre anni aveva guardato i sigilli: solo guardati, ci mancherebbe altro.
Ma pure la gente comune sarebbe stata sottoposta al giudizio divino nelle ultime ventiquattro ore dell’umanità. Tipo quei musulmani immigrati in Italia e rimasti con un pugno di moschee in mano. Tipo quelle Papi girls della politica che, in effetti, non si erano date alla cosa pubblica: quella cosa pubblica, più che altro, l’avevano data. Tipo la Knox del caso Kercher, che aveva firmato il soggetto per un video rock: tale soggetto per nulla al mondo parlava di un festino finito male. Tipo la Franzoni, che era stata condannata per calunnia per aver additato un vicino come autore del delitto del figlio: meno madre. Tipo la Banda Bassotti, Spank e i Puffi.
E quello stesso giorno, mentre esseri alati con spade di fuoco avrebbero diviso i buoni dai cattivi, persino Lui, dopo aver siglato il proprio monogramma cristologico da lasciare ai posteri ed essersi denudato il petto, si sarebbe inginocchiato sul nudo cemento del ponte sullo Stretto di Messina e, nel fulgore dell’Apocalisse, avrebbe confessato a squarciagola: «Accà nisciùno è fessooo!».

(Novembre, 2011)

Pecunia non olet… ma i comunisti sì!

Che tempi, quelli d'inizio secolo. In principio era il Cavalier Silvio Berlusconi: nel maggio del 2011, durante un comizio a Crotone per sostenere la candidata sindaco dell'Udc Dorina Bianchi, asserì, con la consueta carica sentimentale, che i vertici della sinistra «non è che si lavassero molto». Ed emanava raggi di luce intanto che profferiva ad alta e intelligibile voce una simile perla dello scibile, forse perché irrobustito dal sonno ristoratore che ogni dì gli intimava d'andare a letto con le galline, forse perché, proprio in quel mentre, ripensava commosso, sul filo della nostalgia, alla scamerita con osso di suina che aveva gustato la sera prima per cena. D'altra parte, da sempre, gli italiani accettano qualsiasi Premier: gettano il culo oltre l'ostacolo.
"Precari rossi", "toghe rosse", "stampa rossa": insomma, l'allora Presidente del Consiglio e i suoi guizzanti delfini li vedevano ovunque, questi sozzi "comunisti". Al punto che, per di più, il Capo del Governo aveva iniziato a fiutarli alla stregua del più ardito dei segugi, col fine di stanarli persino qualora si fossero eclissati nelle botteghe oscure del volgo informe o della plebe parlamentare. Magari per poi deodorizzarli, chissà.
D'altronde il Cavaliere – era universalmente noto, anche presso la tribù degli Tchambuli della Nuova Guinea – aveva assoluta dimestichezza col popolo italiano: lo conosceva come le sue cosche. E, oltretutto, pressappoco musica di arpe divine, aveva il dono della parola cortese, mai ringhiante, e di orientarla al cuore degli italiani (sebbene, in verità, mirasse regolarmente al didietro). Difatti, un mesetto dopo la kermesse di Crotone, rivendicando i meriti dell'esecutivo sul fronte della gestione dei conti pubblici, aveva strombazzato con volitiva moderazione: «Se sapessero quello che il Governo ha fatto per loro, gli italiani dovrebbero farci un monumento». Che ingrato. Perché gli italiani, il monumento, glielo avevano non solo fatto. Ma anche recapitato. Al volo.
Nel giugno del 2011, a Roma, nel corso del Convegno Nazionale dell'Innovazione, il Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione Renato Brunetta, dall'alto della sua abilità diplomatica, segnatamente distinta da una toccante tolleranza su tutta la linea, aveva così apostrofato alcuni lavoratori appartenenti alla Rete Precari della Pubblica Amministrazione: «Siete la peggiore Italia!». Del resto, erano "precari rossi"...
«L'ennesimo scandaloso episodio di una forsennata aggressione che viene portata avanti da anni contro mio padre»: in questa maniera reagì il Presidente della Fininvest Marina Berlusconi, passata alla storia come la paladina dei più accaniti detrattori del botox, all'indomani della sentenza del Lodo Mondadori, che aveva condannato la holding del Biscione a risarcire la Cir di Carlo De Benedetti di 560 milioni di euro. "Toghe rosse" alla riscossa...
E la "stampa rossa"? Beh, anche i "giornalisti rossi" si erano dati parecchio da fare. Avevano occultato la notizia bomba. Che notizia? Questa: nel maggio del 2011, a Crotone, il Presidente del Consiglio aveva smascherato l'untuoso "diavolo rosso" e serviti su un piatto d'argento i delitti dei "compagni" contro il popolo italiano. Ovverosia: i comunisti, non lavandosi molto, causavano l'aumento delle tariffe dell'acqua!
Nell'Italia dei primi anni del XXI secolo, infatti, le società gestivano il Servizio Idrico Integrato alle condizioni economiche stabilite dalle Autorità d'Ambito: queste condizioni prevedevano che tali aziende recuperassero i costi connessi al servizio che le Autorità stimavano e fissavano per la gestione del servizio stesso. Detto recupero era garantito mediante una tariffa prestabilita applicata ai consumi idrici dell'utente, che quest'ultimo pagava in bolletta.
Alla fine d'ogni triennio di gestione, le società consegnavano alle Autorità d'Ambito i dati per verificare i valori economici risultati a consuntivo. Se i ricavi realmente conseguiti erano superiori a quelli fissati in precedenza dalle Autorità, le aziende restituivano nel triennio successivo la differenza. Viceversa, se erano inferiori, queste li recuperavano nel triennio seguente. Semplificando: in caso di maggiore fatturato realizzato, la differenza veniva restituita diminuendo la tariffa nel triennio successivo; analogamente, le società recuperavano il minore fatturato conseguito maggiorando la tariffa del triennio seguente.
Ma se i comunisti non si lavavano molto, non consumavano tanta acqua; se non consumavano tanta acqua, pagavano importi bassi di bolletta; se pagavano importi bassi di bolletta, le aziende che gestivano il Servizio Idrico Integrato ricavavano un minore fatturato; e quindi, le società, legittimate nel tutelare il proprio equilibrio economico–finanziario, dovevano aumentare le tariffe. Porco mondo! Per colpa di quei maramaldi dei comunisti, le tariffe dell'acqua lievitavano! E a farne le spese erano tutti gli italiani!
Che atrocità. Quale barbarie. Urgeva imprimere una svolta nella storia del Belpaese con una denuncia ferma e risoluta: il Premier l'aveva capito, poveretto. Col tempo sarebbero sbiaditi i ricordi delle agghiaccianti persecuzioni dei "mangiatori di bambini". Avrebbero finalmente prevalso l'alfa e l'omerda della luce, della verità, dell'amore. A Crotone giustizia era stata fatta, insomma.
Invece, nulla. Perché l'implacabile "stampa rossa" aveva insabbiato tutto. C'era riuscita con un gioco di prestigio, cioè dirottando l'attenzione degli italiani sul libro, appena appena agiografico, "Scilipoti, re dei peones", che, come se già il cognome non fosse bastato, si fregiava di una zuccherosa introduzione del Cavaliere, enfatizzata con tanto di fascetta editoriale. E, immantinente, i "giornalisti rossi" fecero serpeggiare anche lo strumentale pettegolezzo secondo il quale fosse pure in cantiere un altro volume, stavolta sulla vita strappalacrime di Silvio Berlusconi, il cui presunto titolo avrebbe dovuto suonare vieppiù così: "La mi' fava sa di menta". Che gentaglia, quella "stampa rossa".
Eppure, rileggendo la storia dell'Italia di quei tempi, non poche perplessità ci attanagliano. Una, in particolar modo. "Precari rossi", "toghe rosse", "stampa rossa": ma tutti questi "comunisti" che il Cavaliere e i suoi ameni pupilli vedevano o annusavano... in realtà, dove cazzo erano?

(Aprile, 2012)

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