Da Livorno a Tokyo si reinventa la vita da sensei della pizza

Livorno. «Nell'Impero del Sol Levante uno che è nato e vissuto a Livorno deve armarsi di pazienza. Specie per quanto riguarda la concezione del lavoro, è meglio che smetta di pensarla alla livornese, dato che qui, in Giappone, si lavora in media dalle dieci alle dodici ore al giorno. Ma è pur vero che da queste parti un livornese di scoglio deve saper valorizzare le proprie qualità distintive, poiché è la via giusta per farsi benvolere. Per intenderci: dove lavoro adesso con la simpatia e la spontaneità ho fatto sì che si viva in un clima di allegria, più informale. I miei colleghi infatti non si inchinano più davanti ai clienti, ma scherzano e salutano con un “ciao”. E questo, incredibile ma vero, alla clientela piace un sacco»: la testimonianza di Alberto Lotti, classe 1974, livornese purosangue, sprizza arguzia e vivacità. E ci descrive, come vedremo, un universo futuristico, per noi forse inconcepibile, in cui si può essere unici sia nei pregi che nei difetti e dove la tradizione e la modernità si fondono contraddicendosi a vicenda, seppure con armonia. Ma per raccontare la “sua” Terra del Sole Nascente dobbiamo fare un passo indietro di dieci anni.
Galeotto fu il ponce, poiché fu proprio al bar Civili di via del Vigna che nel 2005 Alberto conobbe Naoko, una graziosa ragazza giapponese in Italia per studio, che l'anno seguente sarebbe diventata sua moglie: un matrimonio organizzato con frettolosità affinché mamma Carla lo potesse vedere con la fede al dito prima di mancare. Una volta convolati a nozze, Alberto e Naoko presero la decisione di trasferirsi in pianta stabile in Giappone: misero piede sull'isola di Honshu, più precisamente a Tokyo, capitale dalla “conurbazione” di decine di milioni di abitanti, un anno dopo, nel 2007. «Ero cresciuto – racconta Lotti – con i manga e gli anime nipponici ed ero molto incuriosito dagli usi e costumi del Giappone, alcuni dei quali ancora legati al codice dei samurai. Pur amando Livorno, eccezion fatta per i legami familiari, ossia mio padre Luciano e mia sorella Melania, non avevo più stimoli che mi convincessero a restarvi. Perciò capii che era il momento di partire. Ero eccitato all'idea di venire a vivere quaggiù, anche se, in verità, la mia preoccupazione principale era imparare la lingua».
I due giovani andarono ad abitare nel quartiere Shibuya, una delle zone più dinamiche della metropoli. «Fui sorpreso – sottolinea – dal “caos perfetto” che impera per le vie. Shibuya è illuminato notte e giorno da megaschermi a volume altissimo, presenti su tutti gli edifici, e vi si può trovare una strabiliante varietà di negozi, ristoranti e hotel. Dappertutto maree di persone procedono ordinatamente, specie in prossimità del grande crocevia di Shibuya, il più trafficato al mondo, dove hanno girato scene di “Resident Evil” e “Fast and Furious”». Ma Alberto fu impressionato anche dall'automazione presente ovunque e dalla fitta rete di trasporti stradali, ferroviari, aerei e marittimi che caratterizza l'immenso agglomerato urbano ai piedi del Monte Fuji. Solo ad esempio, restò sbalordito dalla strepitosa metropolitana tentacolare e dal castello di autostrade a quattro corsie sormontate dai binari della ferrovia a loro volta sovrastati da passaggi pedonali e altre strade secondarie. Tutto preciso, puntuale, da fantascienza. E tutto pulito e tirato a lucido: l'alto senso civico dei giapponesi consente che per strada non si trovi neanche un mozzicone di sigaretta.
«Qua di lavoro ce n'è a volontà», dice Lotti. «Difatti nel giro di una settimana – prosegue – iniziai a lavorare come pizzaiolo in un ristorante di Omotesando, la zona più modaiola e stilosa di Tokyo, dove ci sono Ferrari e Lamborghini parcheggiate ad ogni angolo e negozi di Louis Vuitton, Gucci, Dior e Prada. In tutta sincerità non mi trovai subito bene, poiché per un giapponese il lavoro è sacro e faticare per dieci-dodici ore consecutive è pressoché la norma: io non ci ero abituato. Eppure in poco tempo mi adattai ai loro ritmi, a volte superandoli, dunque meritandomi il loro rispetto. E l'affabilità e la schiettezza tipicamente labroniche furono la ciliegina sulla torta».
Dal Giappone con furore: per i due giovani da allora in poi fu tutta una discesa. Oggi Naoko è impiegata nel settore import/export e lui è invece capopizzaiolo, cioè un vero e proprio “sensei” con relativi allievi, e lavora in due ristoranti: uno è il “Bamboo” di Omotesando mentre l'altro si trova a Oiso Long Beach, una località marittima simile a Livorno, ed è da rilevare che quest’ultimo sia nella Guida Michelin anche grazie alle sue pizze. Inoltre, in ricordo dei vecchi tempi del Sale, spesso Alberto va a fare surf a Minamiizu. E alla fin fine con la lingua nipponica se l'è cavata bene. 
«Nel 2014 siamo tornati a Livorno – continua – perché la mia nostalgia era tanta. Ma le molte delusioni ci hanno costretti a tornare a Tokyo. Il fatto è che il Giappone, pur con i suoi difetti, in pratica funziona bene su tutti i versanti. Per esempio, il servizio sanitario è eccezionale: puoi fare un check-up completo in un paio d'ore e avere subito i risultati con tanto di medico che te li illustra, senza aspettare mesi». Ma nella testimonianza di Lotti non mancano i “però”: «Ho sei giornate di riposo al mese e quindi ho poco tempo libero per coltivare amicizie, a parte quelle per Antonio “il siciliano” e Maurizio “il fiorentino”, che mi hanno aiutato sin dall'inizio. Purtroppo, in genere, i giapponesi seguono la routine alla perfezione, programmano tutto anche nella vita privata, pensano sempre al futuro e non si godono granché il presente: e questo è un peccato, almeno secondo me. Una volta, mentre lavoravo in un bar-ristorante del distretto di Nakameguro, è entrato un tipo con una bambola gonfiabile vestita da liceale e ha ordinato due caffè. Questo mi ha fatto riflettere su quanto possa essere profonda la solitudine di molti di loro».

La canoa nel cuore per lanciare i campioni azzurri

Livorno. «Credo di aver fatto un buon lavoro da allenatore, forse un po' meno da atleta»: la modestia è il suo forte. Eppure Roberto Sardi, classe 1945, labronico doc, figura tecnica di rilievo del mondo canoistico livornese, vanta, in qualità di allenatore, ben 15 campionati mondiali e 7 campionati europei. Gli azzurri di canoa che ha formato e accompagnato in giro per il mondo, tirati fuori con destrezza da quel cilindro magico che è lo sport targato Livorno, sono davvero tanti. Così come tanti sono i campionati italiani che lo hanno visto seguire i suoi fuoriclasse del kayak in oltre 30 anni di vita spesa tra puntapiedi e pagaie doppie incrociate.
«Iniziai – racconta Sardi – che ero già "grandino", a 18 anni, precisamente nel '64, approdando all'Unione Canottieri Livornesi. In verità ero un fanatico del canottaggio, per cui avrei preferito faticare al remoergometro e nella vasca per la voga. Ma l'allenatore Vincenzo Raveggi, dato che non sono molto alto, mi consigliò di provare con la canoa».
Già, perché l'anno precedente, il 1963, era stato un anno importante per l'Ucl, durante il quale aveva visto la luce una sezione nuova di zecca dedicata a un'altra specialità: la canoa. E, in un'epoca in cui si sentivano ancora gli echi dei mitici Scarronzoni, il Raveggi e il Kamisky prepararono equipaggi destinati ad imporsi, negli anni a venire, in campo nazionale: Sardi, infatti, brillò nei 1.000 metri col K1 ai Campionati Italiani di Mantova del 1967. L'universo della pedaliera della canoa considerata come terra sotto i piedi era diventato la sua casa: l'amore era ormai sbocciato.
Poi il servizio militare in Marina e il lavoro: giocoforza per alcuni anni la canoa non fu più, per Roberto, la priorità. Ma ecco, nel '79, la svolta: iniziò ad allenare per i Canottieri Portuali. Da allora ne sono passati di anni sul calendario e di canoe sotto i ponti, e Sardi, oggi al Canoa Club Livorno, è stato testimone dell'evoluzione dalla vetroresina alla fibra di carbonio. Ma, soprattutto, ha fatto guadagnare decine di titoli italiani e mondiali ai suoi allievi. Un esempio emblematico? Ai Campionati Mondiali dell'89 in Canada, con Roberto Sardi come tecnico federale, nella rosa italiana di canoa c'erano 4 suoi pupilli livornesi: in effetti, che una sola città sfoggi in nazionale ben 4 atleti nella stessa disciplina non è cosa di poco conto.
«Ancora oggi i miei ex allievi mi ringraziano. Dicono che la canoa li ha formati, li ha temprati nel carattere, li ha messi sulla buona strada. Beh, allora mi pare ovvio che la canoa mi abbia dato tantissima soddisfazione», osserva.
Dagli anni '70 ai giorni nostri, questi gli azzurri allenati da Sardi: Lami, Andorlini, Campaccio, Boni, Manteri, Mancini, Buonomo, Ghelardini, Masoni, Mangani, Pagni, Tani, Raveggi, Lombardi, Del Tongo, Moggia, Pellegrini, De Gennaro, Suncini, Loreto, Scherly, Umpetti, Pierotti, Murra, Galvagno, Giannini, Ornella Ricci e Susy Ricci. Tutti fuoriclasse, naturalmente.

L'arte della cornice nella bottega di Massimino

Livorno. "La cosa che sente più stupidaggini al mondo è probabilmente un quadro di museo": così si esprimevano, col chiaro intento di far andare su tutte le furie critici e pittori, quei guastafeste dei fratelli Edmond e Jules de Goncourt, scrittori francesi. E chissà quante, dal '68 ad oggi, ne deve aver sentite – di fanfaluche – il buon Massimo Filippelli, classe 1944, corniciaio e restauratore di quadri, nella sua bottega di via Michon. A profusione, dall'arte alla politica: ma certamente sparate a strenua difesa di quella vivace reputazione da "ammazzasette" tipica dei livornesi. Abbiamo scherzato, è ovvio; perché lo storico negozio di Filippelli (altrimenti detto "Massimìno", ma solo per gli amici) in quasi 40 anni d'attività è stato un rendez-vous d'artisti e professionisti d'ogni ramo.
I primi passi. «Iniziai a lavorare nel '58 che ero a malapena un ragazzo», ci racconta Massimo. «A scuola ero un somaro – scherza – ma solo perché studiare a pappagallo non mi piaceva, non faceva per me. Avevo perciò tre carte da giocare: fare il fornaio, il macellaio o il corniciaio. Indovinate quale scelsi?». Il giovane Filippelli iniziò l'apprendistato presso la bottega di via dell'Indipendenza d'un certo Danilo Petrucci, «che, tra l'altro, nel '52 aveva centrato al Totocalcio un 13 da 78 milioni di vecchie lire, una vincita da urlo per quei tempi». Massimo 2 anni dopo tuttavia cambiò aria: andò a lavorare in via Ernesto Rossi nel negozio di proprietà dell'artigiano fiorentino Vasco Ciappi, dove «circolavano più quadri falsi che veri, imitazioni che venivano vendute come falsi d'autore. Ed è proprio a questa esperienza, per me indubbiamente formativa, che devo la mia capacità di saper discriminare le cifre stilistiche d'un dipinto». Ovviamente per Filippelli l'ammaliante (e feroce) salotto della pittura divenne ben presto una seconda alcova, una fucina di passioni, tant'è vero che, come lui stesso ci confida, «oggi non faccio più il corniciaio, ma solo il restauratore di quadri; per essere precisi, restauro quadri antichi, dell'Ottocento, ma principalmente dipinti d'arte contemporanea, della quale sono innamorato». Ma subito chiarisce: «Non mi sento però un artista: resto un artigiano. Difatti un artista, essendo un creativo, a mio avviso è il peggior restauratore che esista poiché non è in grado d'essere "conservativo". Invece l'artigiano può essere un buon restauratore perché è capace di riparare i danni dell'usura di un'opera, senza tuttavia reinterpretarla».
Una vita spericolata. Per anni ha fatto cornici, ma mai da cornice. Occhi che saettano, capelli e pizzetto sale e pepe, fisico tonico, t-shirt nera, blue-jeans; Massimo ha circa 50 anni di lavoro alle spalle, ma non li dimostra. E, soprattutto, non li sente. Ha 4 figli, uno più bello dell'altro: Tiziana, Gabriele, Beatrice e Ilaria. Ma sembra un giovanotto. Nel 1968, dopo 10 anni sudati come apprendista corniciaio, alzò per la prima volta la saracinesca del suo negozio di via Michon. Ebbene, anche se sembra ieri, l'anno prossimo la sua bottega spegnerà la 40esima candelina. Un compleanno che archivierà 4 decenni di lavoro e di soddisfazioni, di polemiche e d'occasioni d'intesa, di cene conviviali e di risate: momenti di guerra e pace d'una vita ordinaria tra tele e cornici, eppure una vita nel contempo briosa, sui generis, capace di fare di Filippelli un personaggio. Altro che un giro di sveglia; da quel lontano '68 ne è passata d'acqua sotto i ponti. E ormai molte cose sono cambiate. Del resto le epoche si rincorrono, una dietro l'altra, e il profilo del mondo si fa il lifting in continuazione. «A Livorno – osserva contrariato – oramai non ci sono più attività commerciali del tempo che fu. Che so, un antico bar dei primi del '900, oppure una vecchia falegnameria dell'800. Perché il livornese vive alla giornata, non è conservatore. Per esempio, se si passeggia per strada, si nota subito una particolarità: invece di preservare i bellissimi portoni di tanti anni fa, si preferisce sostituirli con quelli d'alluminio anodizzato!».
Un regno di artisti. Mentre Massimo risponde alle nostre domande, una micia ci dimostra simpatia, fa le fusa. Poi si piazza sul tavolo di lavoro e ci fissa; questo è il suo piccolo regno, sembra farci intendere. «In 40 anni – riprende il padrone di bottega – ho visto passare da qui artisti e professionisti di tutte le razze: bookmakers e allenatori del mondo dell'ippica, figure di rilievo della politica locale, avvocati di spicco, docenti, musicisti e, ultimi ma non ultimi, tantissimi pittori». Qualche nome d'artista? Si va da Renato Natali a Giovanni March, da Pardo Fornaciari a Dario Ballantini, da Bobo Rondelli a David Fedi (in arte Zeb), per non parlare dei pittori dell'ultima ondata contemporanea, come Bertelli, Rolla, Bulgini e Bacci. A questo punto Filippelli vuole togliersi un sassolino dalla scarpa: «Vorrei spezzare una lancia in favore di Angelo Froglia, uno degli attori della clamorosa farsa delle teste di Modì rinvenute nei fossi, da molti bollato come "portuale drogato". In realtà Froglia non aveva in mente la goliardia, bensì un progetto artistico di matrice "duchampiana" diretto a destabilizzare la critica». Alla fine dei conti, Massimo non riesce però a dissimulare una certa amarezza: «Ora i quadri – osserva – sono generalmente considerati soltanto arredi per la casa, magari da intonare col divano in pelle. Prima, invece, chi acquistava un dipinto spesso coltivava veramente una passione viscerale per la pittura. D'altronde l'arte è difficile, non è semplice come crogiolarsi tutti i giorni al sole del Boccale».
Cornici speciali. Quello del corniciaio è un mestiere in via d'estinzione? Pare di sì. Le cornici artigianali non sono più richieste perché «quelle di Castorama le hanno soppiantate quasi del tutto, mentre chi vuole una cornice di fattura antica è più facile che si rivolga all'antiquario», sostiene Filippelli. Insomma, oramai Massimo fa soltanto il restauratore di quadri. E la sua bottega di via Michon sta assumendo sempre più i contorni d'una "beauty-farm del dipinto". «Seppure solo in parte – dice – quello che ha seguito le mie orme è stato mio figlio Gabriele, che restaura i mobili nella sua attività di via Crimea. E dicono che sia davvero in gamba». Già, ma non fa il corniciaio. Eh sì, questo mestiere si sta avviando lemme lemme sul viale del tramonto, con buona pace della tradizione. Eppure dalle parole di Filippelli si capisce che si tratta d'un mestiere dal fascino innegabile: «Sin dall'inizio cercai di differenziarmi dagli altri corniciai. Infatti le cornici tradizionali non mi dicevano granché. Io, sul piano della cornice, volevo liberare la mia creatività, volevo dare vita a modelli nuovi, più moderni. E naturalmente in questo l'arte contemporanea mi venne incontro». «Negli anni '70 e '80 – racconta – ci fu la moda del metallo. Era un lavoro duro: prendevo delle lastre di 2 metri per 1 metro, le tagliavo manualmente e poi le molavo. Allora lavoravo per gallerie come Guastalla, Giraldi e via dicendo, che avevano un giro di firme importanti, tra cui Turcato, Fontana e Crippa». «Sulla base delle caratteristiche del quadro – prosegue – sceglievo i fondi, i colori, i materiali. Fascia di metallo con cornice di noce esterna: una cornice del genere indubbiamente si adattava meglio alla cifra stilistica delle opere di quei tempi. In definitiva, in quel periodo avevo completamente preso le distanze dal modello di cornice che aveva spadroneggiato dall'inizio del '900 sino agli anni '60, quello color oro con gli angoli intagliati, per intenderci». Tutte rivisitazioni a livello di cornice – quelle di Filippelli – che però ruotavano intorno a un assioma da non mettere mai in discussione, secondo il quale «la cornice non deve mai disturbare l'opera d'arte, ma darle il coraggio d'uscire; se la cornice prevarica il dipinto, il corniciaio ha fallito».

Ecco a voi Luca, genio del sudoku

Livorno. "Non entri chi non conosce la geometria": così recitava un'iscrizione, attribuibile a Platone, presso l'entrata dell'accademia di Atene. Ebbene, se il livornese Luca Parise si fosse trovato nell'antica Grecia nel 387 a.C. avrebbe varcato la soglia dell'università ateniese senza paura di bluffare. Perché Parise, classe 1989, brillante studente di Castagneto Carducci che frequenta l'ultimo anno del Liceo Classico, si è piazzato sul gradino più alto del podio al 1° Festival del Sudoku che si è tenuto recentemente a Genova e che ha registrato una massiccia affluenza di pubblico.
Nel sudoku, il popolare gioco di logica giapponese che coinvolge milioni di aficionados in tutto il mondo, Luca è difatti un asso. Suo è stato l'alloro nella categoria riservata ai trienni delle scuole superiori, mentre in quella "assoluta" il genietto nostrano dei rompicapi si è aggiudicato il 2° posto. E non dimentichiamo che non si trattava di semplici manches di calcolo matematico, ma di rigide prove articolate in performances di velocità e capacità di riflessione. Insomma sembra che, tra numeri, griglie e matrici, il giovane Parise si trovi proprio a suo agio, come una rana in uno stagno. «Per me il sudoku – dice – è oramai una consuetudine. Anzi, direi quasi un rituale quotidiano: munito di penna, sfido me stesso e la griglia, trovando anche un'occasione di relax. E sapeste che soddisfazione rappresenta per me risolvere il "diabolico"!». E di "diabolico" – così come lo chiama lui – ne avrà da risolvere a profusione il nostro Luca, specie nel prossimo futuro. «Essendomi classificato al 1° posto – rivela – sono stato invitato a partecipare ai Campionati Italiani di Sudoku, che si terranno a Lucca nel gennaio 2008. E mi sto già un po' allenando!».
Ma, dovendo dare a Cesare quel che è di Cesare, è d'obbligo mettere l'accento sul fatto che Parise è uno studente esemplare: «Nelle materie scientifiche riesco molto bene senza particolare sforzo: a giugno ho avuto 10 in matematica e fisica. Ma la mia vera passione è la chimica, una materia ampia e affascinante; potrei passare ore a studiarla! Dopo il liceo mi iscriverò alla Facoltà di Chimica e proverò il test per entrare alla Normale di Pisa. E comunque mi piacciono pure le materie umanistiche: infatti ho un debole per Orazio, Lucrezio e Poliziano».
A mettere il sigillo all'intervista, una ventata d'apertura mentale a tutto tondo, sorprendente considerata l'età di Luca e tuttavia ordinaria se si tiene conto della sua intelligenza: «Galileo Galilei diceva che la natura è scritta in lingua matematica, i cui caratteri "son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche". In effetti la matematica e la fisica riescono a spiegare e prevedere fenomeni che apparentemente possono sembrare distanti da queste materie. Anche se, per fortuna, ci sono anche cose che la matematica non può spiegare: basti pensare al genio creativo umano nella letteratura, nell'arte, nella moda, nella musica e via dicendo».

La città del mal d'ufficio

Livorno. Per un livornese è vero che il lavoro nobilita l'uomo? A parte la naturale propensione tutta labronica a non farsi saltare addosso dalla voglia di lavorare, pare che ai livornesi non piaccia più di tanto stare al lavoro. Infatti una recente statistica li ha fotografati insoddisfatti, demotivati, stressati. Come mai? Semplice: perché passano più ore sul posto di lavoro che col proprio marito o con la propria fidanzata. Tante ore, spesso troppe. Dentro uffici grigi, disadorni. Talvolta ricoprendo mansioni poco stimolanti. Sognando l'eldorado delle incentivazioni. Fra colleghi che si accorgono decisamente d'amare poco. Colleghi che t'invidiano perché lei chiacchiera più volentieri con te che con loro. Colleghe che se la tirano sebbene abbiano il coefficiente intellettivo d'una sciarpa di cachemire. E poi ci sono i carrieristi, più calcolatori d'un pallottoliere, con la fissa per gli straordinari. E, immancabili, i capi con le anime nere, che ti fanno mobbing serrato e ciononostante non provano più sensi di colpa dal primo volo librato dei fratelli Wright. Tutti scandalosamente umani. Insomma, volete mettere lo stress? Altro che mal di scrivania.
Ma ora bisogna dire no allo stress. E sciogliere quei nodi inestricabili che fanno la quieta disperazione di tanti lavoratori. In che modo? Salendo a bordo del truck "Capo, ti amo", un tir itinerante allestito come spazio–benessere che lo scorso week–end ha fatto tappa in città. Aperto al pubblico, il truck "Capo, ti amo", grazie alla sua task–force di superconsulenti, ha portato a Livorno una ventata di novità in seno a tutte quelle soluzioni che si propongono di migliorare la qualità della vita sul lavoro. Già, perché da un sondaggio fresco fresco dell'osservatorio People One Lab è emerso che ai livornesi, come ha affermato il 44% degli intervistati, piace poco l'ambiente in cui lavorano. E che, nel corso degli anni, la qualità della loro vita professionale è diminuita, cosa del resto sostenuta dal 51% dei chiamati in causa. Dati che riguardano tutti i gradini delle piramidi aziendali, non soltanto i dirigenti.
Shiatsu e dieta. Come correre ai ripari, dunque? Ma con "Capo, ti amo", che diamine! Dalla dieta al massaggio shiatsu durante la pausa pranzo: in pratica, venerdì e sabato sono stati svelati i segreti più arcani per sopravvivere al mal d'ufficio. Promossa da Accor Services (numero verde: 800834039), che vanta la paternità dei rinomati "ticket restaurant" e che concepisce e realizza idee innovative per migliorare la produttività delle aziende incrementando il benessere del personale, il progetto "Capo, ti amo" consente a chi lavora di sperimentare ogni soluzione in fatto di "work life benefit", vale a dire quei servizi che le imprese sono in grado d'offrire ai propri dipendenti per assicurare loro la massima tranquillità sul lavoro. Perché se l'impiegato sta bene, allora amerà il proprio direttore: che poi, in sostanza, è il leitmotiv dell'iniziativa. «In tour – dice Mario Fusco, responsabile del "work life team", la squadra di consulenti ad hoc targata Accor Services – sono venuti da noi imprenditori, impiegati, operai. E tutti sono rimasti soddisfatti delle nostre soluzioni. In definitiva, non c'è scetticismo nell'aria, ma tanto relax. Del resto lo stesso ticket restaurant, che può essere utilizzato sia nei centri commerciali che nei ristoranti, è una forma di relax per eccellenza, basti pensare alla comodità d'evitare di portarsi dietro i contanti o di correre al bancomat per prelevare i soldi». Praticamente, partendo dal ticket restaurant, che rappresenta un benefit di tipo alimentare, Accor Services ha sviluppato altre soluzioni all'insegna del benessere del lavoratore. Come il maggiordomo – una sorta di "Ambrogio personale" – da mandare in posta, a fare la spesa o in tintoria. Oppure il telefonino o il palmare gratuiti per un mese. D'altronde "relax" è la parola d'ordine. «Addirittura – aggiunge Fusco – chi ricopre mansioni di comando recepisce il nostro messaggio di relax e lo traduce in una maggiore elasticità nei rapporti con i propri subalterni. In altre parole, il manager "duro" per antonomasia diventa più flessibile».

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