«Io, schiavo di Hitler nei sotterranei delle V2»

Livorno. Quando il libro nero dell’umanità viene aperto, dalle sue pagine può saltare fuori di tutto. Anche una semplice sigla: «KZ». Sigla sconosciuta ai più, ma non a coloro la cui esistenza è divenuta, poco meno di sessant’anni fa, oggetto d’una sofferenza al di là d’ogni immaginazione, causata solo dall’inconcepibile barbarie altrui. Quel «KZ» significa infatti «konzentrazionlager», «campo di concentramento», che vuol dire fame, violenza, dolore, morte. L’orrore della disumanità.
E Gherardo Del Nista, nato a Collesalvetti il 18 novembre del 1919 e da anni residente a Livorno vicino all’ospedale, rammenta alla perfezione cosa c’è dietro quest’agghiacciante acronimo. Perché è uno degli ultimi superstiti del lager più misterioso del Terzo Reich: Mittelbau-Dora, la fabbrica sotterranea dove, tra il 1943 il 1945, nella più assoluta segretezza vennero fabbricati i missili-bomba «V2», con cui Adolf Hitler devastò Londra.
L’arresto. «Non ancora ventunenne, il 10 marzo del 1940 - racconta Gherardo Del Nista -partii per il servizio militare di leva. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista, fui trasferito prima in Piemonte e poi, dopo l’arruolamento nell’Arma dei Carabinieri, in Albania. A seguito del fatidico 8 settembre del 1943, data dell’armistizio italiano, venni arrestato dai soldati del Reich. E, i primi di dicembre, internato insieme ai miei compagni commilitoni - che, come me, non avevano aderito alla Repubblica di Salò, né tantomeno alla richiesta d’entrare a far parte delle «Germanische SS» - nel campo di concentramento e sterminio politico di Mittelbau-Dora».
Nel lager. Il freddo che mordeva i corpi nudi durante l’adunata sulla neve, i capelli tagliati a croce in segno di spregio, il bagno in un disinfettante putrido che aveva già lordato migliaia di uomini, la doccia caldissima o freddissima a seconda dell’estro sadico dell’SS di turno; questo il battesimo. Un numero di matricola (0342-I) e un triangolo rosso (il colore dei prigionieri politici) sull’uniforme zebrata; questi i nuovi connotati di Gherardo.
Sottoterra. «Nei primi tre mesi - prosegue Del Nista - lavorai come minatore. Per 12 ore al giorno, da mezzanotte a mezzogiorno e viceversa, le squadre scavavano gallerie col martello pneumatico, dandosi il cambio in maniera che il lavoro fosse continuativo. Ceffoni, scudisciate, badilate, punizioni atroci: gli aguzzini non ci davano tregua. E si doveva sopravvivere con un unico pasto giornaliero, costituito da un litro di zuppa, un filo di pane nero da suddividere in quattro persone, un rotolino di mallegato e un quadrettino di margarina. E niente acqua».
Prima dell’edificazione del dormitorio all’aperto, i tedeschi costringevano i minatori a dormire e soddisfare i propri bisogni fisiologici nelle gallerie. Dove polmonite, tubercolosi e dissenteria mietevano vittime a tutto spiano. Dato che i tunnel si estendevano per molti chilometri nel sottosuolo, i deportati non dormivano mai nel solito posto. Trattati peggio delle bestie, in breve tempo i prigionieri divennero l’ombra di se stessi: scheletri con gli occhi infossati nelle orbite e la pelle giallo-zafferano, pieni di pulci e pidocchi e costantemente affamati.
I missili «V2». Ultimate le gallerie, furono posati i binari della ferrovia sotterranea per il trasporto del materiale e rese operative le macchine per la fabbricazione dei missili, a cui lavoravano soltanto tecnici tedeschi (tra i quali lo scienziato Wernher Von Braun, inventore dei «V2») e deportati specializzati. Alla manovalanza generica (cui faceva parte Del Nista) non era consentito alcun contatto con loro. Persino alzare lo sguardo verso le bombe era punibile con un colpo di scudiscio sul volto. Tanta era la segretezza intorno a Mittelbau-Dora che, caso unico tra i lager nazisti, di notte i reticolati non erano illuminati per timore dei bombardamenti.
Sabotaggi ed esecuzioni. Malgrado la paura delle terribili fustigazioni, a Mittelbau-Dora ci furono anche tentativi di sabotaggio dei missili. E con gli scarti delle officine fu addirittura costruita una radio per contattare gli Alleati; ma quando le SS se ne accorsero fecero una carneficina. Le esecuzioni per fucilazioni o per impiccagione erano infatti frequenti ed il cerimoniale oltremodo diabolico; un’orchestrina di prigionieri accompagnava gli ultimi passi del condannato, intonando «Lili Marlene». E, talvolta, non era necessario neppure il sabotaggio: sette alpini vennero giustiziati davanti agli 800 italiani del campo soltanto per essersi lamentati della scarsa quantità del cibo.
L’istinto di sopravvivenza. Durante la permanenza nel «Block 18», una baracca del dormitorio sulla collina, Gherardo conobbe altri italiani e diversi toscani. Che, una volta morti, fu costretto ad ammassare sulle montagne di cadaveri destinati ai forni crematori. «Qualche volta - ricorda - mi è addirittura capitato di svegliarmi durante la notte ed accorgermi che il mio vicino di letto era morto nel sonno. Perché si moriva di continuo e per un nonnulla. Quelli più sensibili, quelli rosi dall’angoscia, ci lasciavano la pelle quasi subito. C’era perfino chi tentava di suicidarsi gettandosi sul reticolato dell’alta tensione. E chi, per qualsiasi ragione, non poteva più lavorare, veniva spedito alle camere a gas di Buchenwald. La nostra era una lotta disperata contro la morte per sfinimento: poche briciole di pane ammuffito significavano un giorno in più di vita, una nuova speranza di riassaporare la libertà. Cercai di non farmi mai assalire del tutto dallo sconforto, dalla disperazione: altrimenti, col morale e le forze nell’abisso, in un modo o nell’altro sarei morto. Credo sia stato questo a farmi resistere: l’istinto di sopravvivenza».
La liberazione. Quando le SS compresero che la «Grande Germania» era stata sconfitta, minarono le gallerie e le riempirono con tutti i 50mila deportati del lager, con l’intenzione di farle saltare e, quindi, seppellire ogni prova sotto tonnellate di roccia. Ma i prigionieri furono involontariamente salvati dai civili della vicina cittadina di Nordhausen che, terrorizzati dai bombardamenti, corsero a nascondersi là dentro, insieme ai deportati. A Mittelbau-Dora, dopo la fuga dei nazisti, arrivarono gli americani: era il 15 aprile del 1945. E in seguito i russi, i quali, una volta evacuato il lager, fecero brillare le cariche piazzate dai tedeschi. «Oggi di Mittelbau-Dora - dice Del Nista, che nel 2001 vi è ritornato - restano poche e mute testimonianze. Che sembrano addirittura innocue».
A casa. Il calvario era dunque finito. Del Nista riabbracciò i suoi cari il 17 settembre del 1945: i sogni e i desideri espressi tra le lacrime nell’inferno del campo di concentramento s’erano avverati. Così come, finalmente, il diritto a condurre una vita normale. Convolò infatti a nozze con Gina Salvadorini, che gli dette due figli, attualmente affermati professionisti. Trovò poi lavoro al Cantiere Navale «F.lli Orlando», impiego che lo convinse a trasferirsi in città e che nel ‘79 gli ha dato la pensione. Gli sono stati conferiti: la croce al merito di guerra, il distintivo d’onore per i patrioti «Volontari della Libertà» e il diploma d’onore ai combattenti per la libertà d’Italia. Firmato, quest’ultimo, da Sandro Pertini e Giovanni Spadolini, rispettivamente, all’epoca, Presidente della Repubblica e Ministro della Difesa.
Questo è l’epilogo: il libro nero dell’umanità si chiude. E il terrificante acronimo «KZ» viene risucchiato all’istante tra le pagine. Ma non si dissolve nel nulla. Rimane marchiato a fuoco nella storia.

Nelle caverne cinque tunnel e un'enorme ragnatela di gallerie

Livorno. Il campo di concentramento di Mittelbau-Dora fu costruito nel 1943 in Turingia (nei pressi della cittadina di Nordhausen, a poco più di 100 Km da Hannover) e, originariamente concepito come un comando distaccato dipendente da Buchenwald, venne trasformato in campo autonomo solo il 1 novembre del 1944. L’allestimento di Dora prese piede dal bombardamento della base aerospaziale di Pernemunde ad opera degli Alleati. Questa base importantissima situata sul Mar Baltico, dove si sperimentavano e fabbricavano i missili progettati dallo scienziato Wernher Von Braun, venne rasa al suolo.
Il Terzo Reich doveva assolutamente correre ai ripari. Quindi, la decisione di trasferire, in gran segreto, la fabbricazione dei missili in zone sicure, in caverne già esistenti sotto le colline di Kohnstein, nel massiccio di Sudharz: caverne utilizzate sino ad allora come depositi di carburante. In poche settimane i deportati furono costretti a scavare due tunnel lunghi 1.800 metri l’uno e collegati da una ragnatela di gallerie. Un vero e proprio labirinto attraversato da una ferrovia che consentiva il trasferimento dei componenti degli ordigni nella sala del montaggio. Dopo l’agosto del 1944, altri tre tunnel furono ultimati per fornire maggior spazio alla produzione dei micidiali missili «V2» (razzi lunghi 16 metri, era praticamente impossibile colpirli in volo). Von Braun fu il loro ideatore e la «Cia», dopo la guerra, lo portò negli Usa dove divenne uno degli scienziati di punta della Nasa.
Nei 15 Km di gallerie di Mittelbau-Dora, scavati con il sudore e il sangue di migliaia di anime, il nazismo sperava di costruire l’arma segreta capace di assicurargli la vittoria. I primi scaglioni di deportati sistemarono le caverne, impiantarono le officine e misero a punto le installazioni. Vivevano in antri freddi e umidi, dormendo in alveari costruiti all’interno del tunnel e dandosi il cambio in maniera che una squadra potesse riposare mentre l’altra era al lavoro. La ventilazione e l’illuminazione erano scarse. Mancava l’acqua. Mancavano installazioni igieniche per soddisfare i bisogni corporali. La luce del sole era un miraggio. Insomma, la vita era un inferno; chi non era spezzato dalla fatica o dalla fame, chi non veniva impiccato o fucilato dai sicari nazisti per un nonnulla o per presunto sabotaggio, poteva dirsi fortunato d’essere sopravvissuto all’indomani.
Nel marzo del 1944 furono portate a termine le baracche sulle colline perché ormai lo spazio all’interno delle caverne non consentiva la sistemazione d’altri deportati e, soprattutto, perché era necessario ampliare gli impianti per la produzione dei missili. Così, alle 12 ore giornaliere di lavoro massacrante, si aggiunsero i tempi di trasferta e gli appelli di controllo, tanto che il tempo disponibile per il riposo si riduceva ad una manciata d’ore. Nei venti mesi della sua esistenza, sono stati registrati a Mittelbau-Dora 138mila deportati, dei quali più di 90mila vi hanno perso la vita. Tra di loro, migliaia d’italiani, politici e anche militari, trasferiti qui in spregio ad ogni convenzione internazionale sui prigionieri di guerra. Tra di loro, anche il livornese Gherardo Del Nista.
Le difficoltà di comprendersi a causa della diversità delle lingue non impedirono comunque il sorgere d’un forte movimento di resistenza clandestina, che organizzava soprattutto sabotaggi. Se i missili nazisti non videro il cielo nei tempi prestabiliti e non risultarono sempre quel marchingegno di perfezione e di mortale efficacia auspicato da Hitler, ciò è anche dovuto al fatto che la lavorazione era costantemente ritardata e danneggiata dai tecnici addetti alla loro fabbricazione.
Prima dell’arrivo degli Alleati, i nazisti tentarono di far entrare i prigionieri nelle gallerie per poi farle saltare con la dinamite. Ma il piano non andò in porto. Il campo venne liberato dagli americani il 15 aprile del 1945.

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