Operazione “Trota d’Oro”

Che tempi, quelli d'inizio secolo. In principio era il Senatore a vita Giulio Andreotti: novantatré anni (tutti in un gobbo solo), nel maggio del 2012 era stato ricoverato al Policlinico "Gemelli" per un malore. E, d'improvviso, qualcuno aveva iniziato a credere ai miracoli. Vale a dire che la revisione della spesa pubblica funzionasse sul serio.
Mala tempora currunt! La crescita economica dello stivale era soltanto risucchio, scoppio e masticamento di chewing gum. E ciò benché l'adorabile Premier Mario Montenstein, capitano di lungo corso chiamato per levare i testicoli dell'Italia dalla morsa, premesse sull'acceleratore (delle auto blu). Eh, sì: il Premier manteneva la rotta, era un duro. In molti si lagnavano di Montenstein. Alcuni dubitavano senza cognizione di causa. Altri miagolavano nel buio. Altri ancora squittivano. Dunque, si sappia: se non ci fosse stato lui... ce ne sarebbe stato un altro. A volte converrebbe desistere da simili elucubrazioni.
Nel corso della crisi economica dei primi decenni del XXI secolo – che aveva rimarcato l'esiguità dei salari a fronte di una tassazione da cappio al collo, comportato licenziamenti a nastro e marachelle ai danni della società incaricata della riscossione nazionale dei tributi, tagliato a lasagne le famiglie e incrinato la fiducia nella politica tutta, finanche i consensi del Governo – un fattaccio su tutti aveva dominato la scena: l'affaire Lega Nord.
Infatti, nell'aprile del 2012, era scoppiato lo scandalo: una serie di accertamenti sui conti del Carroccio da parte di diverse procure aveva evidenziato che qualche palla poteva essere in fuorigioco. Tra le altre cose, era emerso che il tesoriere del partito, Francesco Belsito, pareva avesse attinto del denaro dalle casse della Lega Nord per acquistare fondi in Tanzania e per investire in lingotti d'oro e diamanti (inoltre, sembrava che l'oro e i diamanti fossero stati divisi fra lo stesso Belsito e altri esponenti del movimento). «Ho agito nell'interesse della Lega», disse ai magistrati l'indagato, preoccupato ma sereno. All'epoca subito espulso dal partito, l'ex tesoriere aveva sostenuto di essere sempre stato un buon amministratore e di aver eseguito tutte quelle operazioni per conto del movimento.
L'attacco mediatico non aveva avuto precedenti. Il Carroccio era stato alluvionato da una grandinata di improperi e pernacchie. Innocentisti e colpevolisti se le erano date di santa ragione. Ma la presunzione d'innocenza è una delle più grandi conquiste di ogni civiltà giuridica: difatti il presunto faccendiere avrebbe invece meritato la medaglia d'oro al valor civile. Per quale motivo? Perché nessuno parlò mai dell'Operazione "Trota d'Oro". E fu come un esorcismo poiché, se nessuno ne aveva parlato, risultò al mondo che quell'operazione non era mai stata concepita né messa in atto. Niente di più falso, ahinoi.
Giornali ed emittenti sempre più uguali e omologati al pensiero unico dominante, quando non incentrati sul rinforzare le mura del rancore e dell'amarezza, avevano proposto servizi giornalistici su temi di bruciante attualità, quali George Clooney con i suoi irrinunciabili "wow!", il clamoroso flirt di Belen Rodriguez con Homer Simpson, i rapporti burrascosi tra l'ex Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione Renato Brunetta e i suoi vicini di nanerottolo, il figlio illegittimo di un sacerdote di Milwaukee che aveva preso tutto da suo padre (anche la sifilide) e l'agghiacciante scoreggia di uno yak di montagna scambiata da un marine di stanza in Afghanistan per fuoco amico: però mai avevano fiatato circa l'Operazione "Trota d'Oro". Sarebbe stato doveroso non fare alcuna omissione in seno a uno scandalo di siffatta delicatezza e di così vasto interesse come l'affaire Lega Nord: tuttavia l'Operazione "Trota d'Oro" restò ignota al volgo. Entità stratificate, ma invisibili, irraggiungibili, la seppellirono in un file criptato di un PC appartenente al burattinaio supremo, un baffuto agente dell'A.I.S.I. (l'ex S.I.S.De., mica la Loggia del Leopardo, poffarbacco!).
L'idea dell'Operazione "Trota d'Oro" era nata dalle ceneri della "Giornata della Fede" del 18 dicembre del 1935, iniziativa interna alla campagna "Oro alla Patria", organizzata dal regime mussoliniano e finalizzata a promuovere l'autarchia economica dell'Italia in modo da consentire al paese, con la collaborazione comune, di superare le schiaccianti difficoltà di quei tempi. Quel giorno migliaia di cittadini avevano consegnato volontariamente l'anello matrimoniale alla nazione, ricevendone in cambio uno di ferro: in ventiquattro ore vennero raccolte milioni di fedi nuziali, ossia decine e decine di tonnellate d'oro e argento.
Questa l'idea: replicare l'iniziativa del 1935. Nella sua padana ingenuità, ad averla avuta era stato un tizio indurito, amareggiato, la cui unica consolazione era l'odio, un tale che trascinava da anni le stanche membra nonostante i postumi di un grave mancamento. Le ragioni di una simile idea? Perché voleva fare del Carroccio il primo partito della penisola e di se stesso il glorioso imperatore d'Italia. Il tizio amareggiato era stato la mente. Francesco Belsito, il braccio. Che strana coppia.
Erano questi, in sintesi, gli obbiettivi dell'Operazione "Trota d'Oro": per svincolare l'Italia dalle tendenze internazionali, si sarebbe dovuta costituire, in virtù della donazione di milioni di anelli matrimoniali da parte dei cittadini della Padania e poi dell'intera nazione, una titanica riserva aurea, un immenso sovrappiù di oro rispetto alla riserva monetaria nazionale già esistente. In seguito, col ricavato della vendita di questo surplus aureo ai paesi esteri (tipo il Burkina Faso o Paperopoli) sarebbe stato aggredito il debito pubblico e trovato anzitempo il bandolo della mattanza. Farneticazioni? Forse. O forse no. Comunque, ecco a che cosa erano serviti i lingotti d'oro dello scandalo: per l'avvio dell'operazione. Erano solo fedi nuziali fuse, quei lingotti. Beh, ad onor del vero, nell'affaire Lega Nord si era parlato pure di diamanti e di fondi in Tanzania. Ma non bisogna sempre spaccare il capello in quattro. Talvolta si deve avere fede. Già, fede. Come quella del 18 dicembre del 1935.
Unico ostacolo all'Operazione "Trota d'Oro": il baffuto 007 dell'A.I.S.I. Quel diavoletto birichino, oramai raggiunte la saggezza, la maturità e l'incantevole limpidezza del genio strategico, per nulla intenzionato a lasciare le redini dell'Italia alla precitata strana coppia, ululò alla propria legione: «Al mio via, scatenate l'Interno!». E fece tutti flambè. Fece capire chi davvero dettava le regole, a chi si dovevano sempre chiedere le chiavi del cesso. Strapazzò di coccole il tizio indurito, Belsito e altri membri del Carroccio. Insomma, l'Operazione "Trota d'Oro" venne insabbiata. I media la ignorarono. E nessuno ne seppe niente. Perché i servizi di intelligence, quando vanno a braccetto con la stampa, talora servono più che altro per tutelare il potere dei Palazzi o complottare ai danni della sovranità popolare, non tanto per occuparsi della sicurezza o fare prevenzione.
«È stata una gran bella esperienza, questa. Sono contento di tutto, della mia vita e di ciò che ho realizzato», avrebbe confidato, alla fine della giostra, il baffuto agente segreto ad alcuni suoi fedeli pretoriani. Aggiungendo, mefistofelico: «E adesso, per favore, casta».

(Giugno, 2012)

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