Federico Maria, l'artista multiforme

Livorno. Titolo: «I miracoli di Padrepio». Sottotitolo: ««Che avvenettero veramende, potesse stiantàre chi non ci crede. Ame». Autore: Federico Maria Sardelli, direttamente da quella fucina dello sberleffo che è il «Vernacoliere» di Mario Cardinali. Un’opera esilarante che, in una pittoresca miscela di vignette surreali, pseudo-dialetti meridionali (l’origine del religioso) e toscani (l’origine di Sardelli), raccoglie un rosario di stranissimi miracoli che smitizzano «la tecnica del prodigio», rispettando nel contempo la «credulità della fede». Presentato nell’ultima edizione di «Lucca comics & games 2002» e adesso in tutte le edicole e librerie toscane, il volume ha subito fatto centro. Perché quando si parla di Federico Maria Sardelli, vulcano satirico dalle mille sfaccettature e, soprattutto, musicista d’eco internazionale, si può discorrere con nonchalance di genialità. Ma d’una genialità mai costruita, mai artefatta: bensì genuina, allo stato primordiale. E, per fortuna, lasciare al palo la solita minestra propinata al pubblico da tanti satiri senza flauto e soprattutto senza idee, spesso sopravvalutati per arcani motivi. Una minestra sgradita a Federico che, viceversa, ama la buona cucina: difatti, pare che egli stesso si diletti nel confezionare manicaretti. È un dato di fatto, dunque: una pietanza preparata da Sardelli si può gustare con una benda sugli occhi senza correre rischi Se la metafora ci è consentita.
Quando è nata la sua passione per il disegno e la pittura?
Nascendo da padre pittore, il disegno e la pittura sono stati un linguaggio immediato. Mio padre mi ha sempre insegnato, ma con distacco, per non influenzarmi troppo. Il mio imparare da lui è stato più un chiedere e un imitare. Alle elementari ero il più bravo della classe in disegno e, tanto i compagni che le insegnanti, pensavano: «Per forza, è figlio di un pittore». Come se tutti i figli di pittori fossero bravi! Addirittura qualcuno insinuava che fosse mio padre a farmi i disegni, cosa che mi faceva andare in bestia. Ho avuto la fortuna, oltre ad avere un padre pittore, che fosse anche dotato d’una tecnica classica e rigorosa da cui ho potuto trarre grande giovamento. Per lui, livornese e toscano, i macchiaioli sono lontani mille miglia, mentre Durer è un amico di famiglia. È evidente che, con un padre così, non potessi non dedicarmi all’incisione e all’acquarello. Per me l’olio è arrivato più tardi, per mio interesse. La prima personale l’ho fatta a 14 anni; da lì ne sono venute tante, e mille concorsi di pittura. Dalla pittura ai fumetti, il passo è stato breve: a 12 anni ho pubblicato la prima vignetta sul mensile «Il Vernacoliere». Da allora ho imbrattato centinaia di pagine, illustrato libri, pubblicato raccolte di scritti e disegni.
Come vedono la luce i personaggi e le rubriche che crea per «Il Vernacoliere»?
«I miracoli di Padrepio» è l’ultimo libro arrivato. Il lettore non s’inganni; si tratta di miracoli che «avvenettero veramende, potesse stiantàre chi non ci crede. Ame». La realtà - si dice - è sempre più umoristica e paradossale della fantasia. Basta osservare ed alterare un nonnulla per ottenere un effetto comico. Io però non sono un comico, non parto con l’idea «e ora cosa m’invento per divertire?» In realtà scrivo e disegno quello che mi pare, quello che mi fa ridere, quello che vorrei trovare da leggere. Mi rallegro se questo fa ridere anche gli altri.
A proposito del «Vernacoliere»: qualcosa da dire sul recente «caso Borzacchini»?
Dopo tanto chiasso e tanti inutili commenti, meglio sarebbe un «no comment»: se non fosse che, essendo amico tanto di Mario Cardinali quanto di Giorgio Marchetti, rimango rattristato dall’epilogo della storia.
E la musica?
Mio padre, pittore e fervente appassionato di musica, mi ha tirato su fin da piccolo con dosi cavalline di Beethoven e Mozart, dei quali, all’età di 3 anni, già sapevo distinguere i movimenti di tutte le sinfonie e spesso anche le tonalità. Mi ricordo mio padre che mi chiamava nel suo studio tonante di musica e, a bruciapelo, m’inquisiva: «Che sinfonia è questa?» Io balbettavo: «... la terza» e lui, senza porre tempo: «Che movimento?» Io indugiavo un attimo e poi tentavo: «... il quarto» e lui subito: «Cooosa?» E io, di nuovo: «... no, ho sbagliato, è il terzo!» e allora mi congedava con affettuosa manata sul capo. Insomma, questo fu l’inizio.
Da dove nasce l’amore per l’opera vivaldiana?
È davvero una cosa sorprendente e si può paragonare al «primo amore». Avrò avuto dieci anni quando, nello studio d’un pittore collega di mio padre, udii una musica che m’inchiodò: non avevo mai sentito nulla di più emozionante. Chiesi subito cosa fosse e mi fu detto che era il terzo movimento dell’«Estate» di Vivaldi. Da quel momento iniziai a comprare dischi di questo autore. Scoprii l’«Estro Armonico», poi «La Stravaganza». E più ascoltavo, più mi piaceva. Ricordo che - avrò avuto 14 anni - dettero alla televisione la «Juditha Triumphans»: io la registrai alla bersagliera con uno squallido mangianastri e poi, dopo numerosi riascolti, stesi in partitura le arie che più mi piacevano. Da quel momento l’emozione per quella musica non si è mai interrotta.
Perché i Modo Antiquo?
Dall’ascolto alla pratica, se sospinti da forte interesse, il passo è breve. Iniziai, come tantissimi, a suonare il flauto dolce alle medie e devo ringraziare la mia insegnante se imparai subito a leggere la musica. Ma, per me, leggere voleva dire soprattutto scrivere: iniziai subito a comporre brani pretenziosi come concerti per clavicembalo e archi o musica sacra, anche se a quel tempo conoscevo solo la chiave di violino. Contemporaneamente, per eseguire quelle pagine impegnative che concepivo, maturai presto la mia tecnica strumentale e, a 14 anni, detti il mio primo concerto pubblico come flautista. Quello fu anche l’anno della mia prima personale di pittura, dove presentai una serie di acqueforti ispirate al «Beatus Vir» di Vivaldi. Qualche anno dopo, assieme agli amici Roberto Sbolci e Luca Brunelli Felicetti, formai «Modo Antiquo», con cui iniziammo a divulgare la musica medievale, per la quale m’ero andato appassionando. Oggi «Modo Antiquo» è formato da due anime: l’orchestra barocca, diretta da me, e l’ensemble medievale, diretto da Bettina Hofmann.
Pochissimi, nel mondo, possono vantare due nominations ai «Grammy Awards»...
Ti confesso che, quando una mattina mi telefonò la mia casa discografica per dirmi che ero stato nominato ai «Grammy», chiesi: «E cos’è?» Mi ci volle un po’ per realizzare che era l’«oscar della musica». La cerimonia al Madison Square Garden di New York è stata frastornante, divertente e kitsch come solo un film, americano per l’appunto, può essere. Anzitutto, c’è l’obbligo d’arrivare alla cerimonia in limousine. Poi attraversi un lunghissimo tappeto rosso tra due ali urlanti di folla che sono lì a sgolarsi per Bruce Springsteen o per Madonna, mentre te sei lì perché hai fatto i «Concerti Grossi» di Corelli. Che, se quelli li ascoltassero, ti metterebbero alla gogna. Dentro, tra divi del rock, mafiosi discografici e belle donne in abiti vertiginosi, sei costretto a girare con la medaglia al collo tra altri colleghi medagliati che, appena t’incrociano, ti abbracciano come si fa con un vecchio amico e ti chiedono per quale canzone ti hanno premiato. Te rispondi che, veramente, si tratterebbe d’un genere un po’ démodé e loro: «Oh wonderful! Oh fantastic!» E giù manate sulle spalle come vecchi cow-boy. Insomma: una seratina davvero sobria...
Livorno, amore mio: qual è il rapporto con la sua città natale?
Il rapporto con Livorno è semplice: la amo, appunto. Trovo che non vi sia popolo più spiritoso - ancorché d’uno spirito spesso greve - e dotato d’innato senso dell’umorismo di quello livornese. Una battuta sboccata ma geniale e fulminante come si può udire in un bar livornese non la sentirai mai a Firenze. E questo mi manca. Io vivo a Firenze da 15 anni e, senza voler passare da ingrato, non riesco a trovare in questa città quella simpatia e quella «verve» che si trova a Livorno. Poi, però, ci sono le questioni artistiche e professionali, e qui si fa la differenza; l’offerta ed il consumo della musica - parlo di quella classica - che si fa a Livorno è ancora insoddisfacente. Molto si è fatto, da quando vi abitavo, ma trovo che manchi ancora la passione per scelte coraggiose e di qualità.
Federico Sardelli allo specchio: un bilancio della sua attività artistica?
Ultimamente, dopo che la «Fondazione Cini» di Venezia ha pubblicato il mio saggio «La musica per flauto di Antonio Vivaldi», ho unito alle altre anche l’attività musicologica: curo una collana di fac-simili vivaldiani e sono entrato nel comitato scientifico dell’«Istituto Italiano Antonio Vivaldi». Che bilancio dovrei fare?
Progetti futuri?
È imprudente sporgersi troppo verso il futuro: accontentiamoci degli impegni a breve termine. Intanto sono felice d’aver diretto a dicembre l’orchestra del Comune di Firenze in un programma vivaldiano.

Dal vernacolo all'invenzione di Modo Antiquo

Livorno. Federico Maria Sardelli è nato a Livorno nel ‘63. Figlio d’arte (il padre è Marc, famoso pittore), sin da giovanissimo collabora al mensile satirico «Il Vernacoliere» di Mario Cardinali. E dalle vignette su «Amelia e Corinna» (illustrazioni delle dispute vernacolari scritte dallo stesso Cardinali) è via via passato alla creazione d’irresistibili personaggi umoristici e satirici, quali «Clem Momigliano», il «Mago Afono», «Omar», il «Bibliotecario», le «Madonne» e il «Paglianti». Personaggi che lo hanno reso parecchio noto fra i lettori della testata labronica, alcuni dei quali gli hanno persino intitolato dei fans club in varie zone della penisola. Oltre ai fumetti, è anche autore di tavole satirico-politiche e di rubriche redazionali esilaranti (basti citare «Sagre e fiere», «Il libro Cuore», «Le più belle cartoline del mondo», «L’angolo della poesia», «Padrepio»).
Questa, però, è soltanto la punta dell’iceberg d’un curriculum assai multiforme e variegato: infatti Sardelli è anche direttore dell’orchestra barocca «Modo Antiquo», da lui fondata. E, inoltre, flautista di strumenti storici, musicologo, compositore, pittore, incisore, illustratore di libri (tutti i testi di Ettore Borzacchini - alias Giorgio Marchetti - e molti altri volumi editi da Salani, Ponte alle Grazie, Akademos), direttore del «Dipartimento di musica antica» dell’Accademia musicale di Firenze (ove ha la cattedra di flauto traverso barocco e flauto dritto), autore di saggi d’ampia cultura musicale («La musica per flauto di Antonio Vivaldi» e «Quaderni vivaldiani XI») e talora di libri debordanti d’umorismo feroce e comicità surreale.
Versatile, eclettico, geniale: prima enfant prodige, ora artista affermato. Al momento risiede a Firenze per esigenze di lavoro, ma il carattere è rimasto quello d’un livornese verace. Un livornese verace con cromosomiche tendenze all’ingegno e alla creatività, s’intende. La sua produzione discografica conta circa venti Cd, tra i quali numerose prime assolute di lavori di Antonio Vivaldi (come l’integrale delle «Cantate» e i «Concerti di Parigi»). Nel 1997 e nel 2000 ha ricevuto la nomination al «Grammy Awards» - importantissimo premio Usa, vale a dire l’«oscar della musica» - per i dischi «Antonio Vivaldi, Concerti per molti Istromenti» e «Arcangelo Corelli, Concerti Grossi, Op. VI», entrambi diretti da lui. La sua attività concertistica (sia come solista, sia come direttore dell’ensemble) è molto intensa: a tutt’oggi viene regolarmente invitato nei più prestigiosi festival europei di musica antica.

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