L'arte della cornice nella bottega di Massimino

Livorno. "La cosa che sente più stupidaggini al mondo è probabilmente un quadro di museo": così si esprimevano, col chiaro intento di far andare su tutte le furie critici e pittori, quei guastafeste dei fratelli Edmond e Jules de Goncourt, scrittori francesi. E chissà quante, dal '68 ad oggi, ne deve aver sentite – di fanfaluche – il buon Massimo Filippelli, classe 1944, corniciaio e restauratore di quadri, nella sua bottega di via Michon. A profusione, dall'arte alla politica: ma certamente sparate a strenua difesa di quella vivace reputazione da "ammazzasette" tipica dei livornesi. Abbiamo scherzato, è ovvio; perché lo storico negozio di Filippelli (altrimenti detto "Massimìno", ma solo per gli amici) in quasi 40 anni d'attività è stato un rendez-vous d'artisti e professionisti d'ogni ramo.
I primi passi. «Iniziai a lavorare nel '58 che ero a malapena un ragazzo», ci racconta Massimo. «A scuola ero un somaro – scherza – ma solo perché studiare a pappagallo non mi piaceva, non faceva per me. Avevo perciò tre carte da giocare: fare il fornaio, il macellaio o il corniciaio. Indovinate quale scelsi?». Il giovane Filippelli iniziò l'apprendistato presso la bottega di via dell'Indipendenza d'un certo Danilo Petrucci, «che, tra l'altro, nel '52 aveva centrato al Totocalcio un 13 da 78 milioni di vecchie lire, una vincita da urlo per quei tempi». Massimo 2 anni dopo tuttavia cambiò aria: andò a lavorare in via Ernesto Rossi nel negozio di proprietà dell'artigiano fiorentino Vasco Ciappi, dove «circolavano più quadri falsi che veri, imitazioni che venivano vendute come falsi d'autore. Ed è proprio a questa esperienza, per me indubbiamente formativa, che devo la mia capacità di saper discriminare le cifre stilistiche d'un dipinto». Ovviamente per Filippelli l'ammaliante (e feroce) salotto della pittura divenne ben presto una seconda alcova, una fucina di passioni, tant'è vero che, come lui stesso ci confida, «oggi non faccio più il corniciaio, ma solo il restauratore di quadri; per essere precisi, restauro quadri antichi, dell'Ottocento, ma principalmente dipinti d'arte contemporanea, della quale sono innamorato». Ma subito chiarisce: «Non mi sento però un artista: resto un artigiano. Difatti un artista, essendo un creativo, a mio avviso è il peggior restauratore che esista poiché non è in grado d'essere "conservativo". Invece l'artigiano può essere un buon restauratore perché è capace di riparare i danni dell'usura di un'opera, senza tuttavia reinterpretarla».
Una vita spericolata. Per anni ha fatto cornici, ma mai da cornice. Occhi che saettano, capelli e pizzetto sale e pepe, fisico tonico, t-shirt nera, blue-jeans; Massimo ha circa 50 anni di lavoro alle spalle, ma non li dimostra. E, soprattutto, non li sente. Ha 4 figli, uno più bello dell'altro: Tiziana, Gabriele, Beatrice e Ilaria. Ma sembra un giovanotto. Nel 1968, dopo 10 anni sudati come apprendista corniciaio, alzò per la prima volta la saracinesca del suo negozio di via Michon. Ebbene, anche se sembra ieri, l'anno prossimo la sua bottega spegnerà la 40esima candelina. Un compleanno che archivierà 4 decenni di lavoro e di soddisfazioni, di polemiche e d'occasioni d'intesa, di cene conviviali e di risate: momenti di guerra e pace d'una vita ordinaria tra tele e cornici, eppure una vita nel contempo briosa, sui generis, capace di fare di Filippelli un personaggio. Altro che un giro di sveglia; da quel lontano '68 ne è passata d'acqua sotto i ponti. E ormai molte cose sono cambiate. Del resto le epoche si rincorrono, una dietro l'altra, e il profilo del mondo si fa il lifting in continuazione. «A Livorno – osserva contrariato – oramai non ci sono più attività commerciali del tempo che fu. Che so, un antico bar dei primi del '900, oppure una vecchia falegnameria dell'800. Perché il livornese vive alla giornata, non è conservatore. Per esempio, se si passeggia per strada, si nota subito una particolarità: invece di preservare i bellissimi portoni di tanti anni fa, si preferisce sostituirli con quelli d'alluminio anodizzato!».
Un regno di artisti. Mentre Massimo risponde alle nostre domande, una micia ci dimostra simpatia, fa le fusa. Poi si piazza sul tavolo di lavoro e ci fissa; questo è il suo piccolo regno, sembra farci intendere. «In 40 anni – riprende il padrone di bottega – ho visto passare da qui artisti e professionisti di tutte le razze: bookmakers e allenatori del mondo dell'ippica, figure di rilievo della politica locale, avvocati di spicco, docenti, musicisti e, ultimi ma non ultimi, tantissimi pittori». Qualche nome d'artista? Si va da Renato Natali a Giovanni March, da Pardo Fornaciari a Dario Ballantini, da Bobo Rondelli a David Fedi (in arte Zeb), per non parlare dei pittori dell'ultima ondata contemporanea, come Bertelli, Rolla, Bulgini e Bacci. A questo punto Filippelli vuole togliersi un sassolino dalla scarpa: «Vorrei spezzare una lancia in favore di Angelo Froglia, uno degli attori della clamorosa farsa delle teste di Modì rinvenute nei fossi, da molti bollato come "portuale drogato". In realtà Froglia non aveva in mente la goliardia, bensì un progetto artistico di matrice "duchampiana" diretto a destabilizzare la critica». Alla fine dei conti, Massimo non riesce però a dissimulare una certa amarezza: «Ora i quadri – osserva – sono generalmente considerati soltanto arredi per la casa, magari da intonare col divano in pelle. Prima, invece, chi acquistava un dipinto spesso coltivava veramente una passione viscerale per la pittura. D'altronde l'arte è difficile, non è semplice come crogiolarsi tutti i giorni al sole del Boccale».
Cornici speciali. Quello del corniciaio è un mestiere in via d'estinzione? Pare di sì. Le cornici artigianali non sono più richieste perché «quelle di Castorama le hanno soppiantate quasi del tutto, mentre chi vuole una cornice di fattura antica è più facile che si rivolga all'antiquario», sostiene Filippelli. Insomma, oramai Massimo fa soltanto il restauratore di quadri. E la sua bottega di via Michon sta assumendo sempre più i contorni d'una "beauty-farm del dipinto". «Seppure solo in parte – dice – quello che ha seguito le mie orme è stato mio figlio Gabriele, che restaura i mobili nella sua attività di via Crimea. E dicono che sia davvero in gamba». Già, ma non fa il corniciaio. Eh sì, questo mestiere si sta avviando lemme lemme sul viale del tramonto, con buona pace della tradizione. Eppure dalle parole di Filippelli si capisce che si tratta d'un mestiere dal fascino innegabile: «Sin dall'inizio cercai di differenziarmi dagli altri corniciai. Infatti le cornici tradizionali non mi dicevano granché. Io, sul piano della cornice, volevo liberare la mia creatività, volevo dare vita a modelli nuovi, più moderni. E naturalmente in questo l'arte contemporanea mi venne incontro». «Negli anni '70 e '80 – racconta – ci fu la moda del metallo. Era un lavoro duro: prendevo delle lastre di 2 metri per 1 metro, le tagliavo manualmente e poi le molavo. Allora lavoravo per gallerie come Guastalla, Giraldi e via dicendo, che avevano un giro di firme importanti, tra cui Turcato, Fontana e Crippa». «Sulla base delle caratteristiche del quadro – prosegue – sceglievo i fondi, i colori, i materiali. Fascia di metallo con cornice di noce esterna: una cornice del genere indubbiamente si adattava meglio alla cifra stilistica delle opere di quei tempi. In definitiva, in quel periodo avevo completamente preso le distanze dal modello di cornice che aveva spadroneggiato dall'inizio del '900 sino agli anni '60, quello color oro con gli angoli intagliati, per intenderci». Tutte rivisitazioni a livello di cornice – quelle di Filippelli – che però ruotavano intorno a un assioma da non mettere mai in discussione, secondo il quale «la cornice non deve mai disturbare l'opera d'arte, ma darle il coraggio d'uscire; se la cornice prevarica il dipinto, il corniciaio ha fallito».

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