E il livornese è un po' samurai

Livorno. Indole liberale e insolente a un tempo, carattere guascone nonché spigoloso e, soprattutto, spirito battagliero alle stelle; così sono i livornesi, proprio una razza a parte, traboccanti d'una forza fuori del comune. Una forza la cui genesi, attraverso le gesta di coriacei «risicatori» e arditi mercanti provenienti da ogni pertugio del mondo, si perde nella notte dei tempi. E che oggi è più viva che mai, specie in ambito sportivo. Dunque, sintetizzando: culto della forza, spirito competitivo e fibra multietnica. Ingredienti genuini che, oltretutto, possono spiegare come mai in città siano così tanti gli appassionati di quelle discipline d'oltre stivale in cui è lo scontro fisico a farla da padrone: vale a dire, le arti marziali.
Secondo Claudio De Simoni, presidente dell'associazione culturale no-profit «La Livornina» di via del Forte S.Pietro — che conta oggi 160 iscritti ed è stata fondata nel '98 per valorizzare la storia e le tradizioni di Livorno tramite studi, conferenze e cortei in abiti d'epoca — questa propensione tutta labronica per le discipline marziali ha radici storiche. «Intorno al 1585 — spiega — arrivò in città una delegazione di «Figli del Sol Levante», comitiva di orientali convertiti al Cristianesimo. Da noi fecero soltanto tappa, poiché intendevano raggiungere Roma per incontrare il Papa. Ma la zona piacque loro così tanto che, in seguito, alcuni si stabilirono qui e dettero vita a una sorta d'ambasceria del Sol Levante alla corte del Granducato di Toscana. Il resto è venuto da sé. Perché noi livornesi abbiamo saputo apprendere di tutto da tutti e certe inclinazioni sono rimaste inscritte nel nostro Dna, comprese quelle verso le arti marziali».
Massimo Rizzoli, titolo mondiale di «boxe tailandese» e di «kick boxing», combattente dell'arte marziale brasiliana «vale tudo» e vertice dell'associazione sportiva «Rendoki» (che a novembre inaugurerà la nuova sede in via Grotta delle Fate), osserva che «benché «sanguigni» e poco diplomatici, i livornesi non sono cattivi d'animo: sono dei non-violenti. È vero che prediligono gli sport da combattimento perché questi permettono loro di misurarsi fisicamente. Ma, in genere, li praticano senza serbare rancore e senza imprimere violenza oltremisura. In altre parole: si fa sì a cazzotti, ma alla fine si va a prendere il caffè insieme». A ruota il parere di Maurizio Silvestri, 8° Dan di ju jitsu, direttore tecnico dello «Zen club» di via Piombanti e istruttore di guardie del corpo e reparti militari operativi: «Perché i livornesi hanno così tanta voglia di misurarsi? Da un lato, per il carattere esuberante, per il bisogno innato di competizione. Dall'altro, scavando nel passato, per la necessità d'essere sempre pronti a difendersi da qualsiasi attacco; basti pensare ai tremendi arrembaggi dei saraceni». Infine, l'opinione di Damiano Morelli, istruttore di «wing tzun» della palestra «Matrix» di via della Padula, dapprima esperto del sistema Leung Ting poi professionista nell'ambito del wing tzun della «Ebmas» di Emin Boztepe e, di recente, trainer per alcune forze speciali: «Come ogni città portuale anche la nostra è sempre stata in continuo contatto con diverse etnie e culture. Ai tempi in cui i nostri mari venivano solcati da orientali, africani e «corsari» d'ogni dove, ciascuno dei quali con diversi costumi, religioni e stili di vita, secondo me era inevitabile che, per continuare a mantenere il «modus vivendi» della città, vi fossero delle lotte molto aspre. Nelle quali emergeva giocoforza un forte spirito battagliero, che è arrivato fino a noi».

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