Sessanta anni di storia di Livorno, la racconta il "barbiere rosso"

Livorno. «Ma lo sai che...»: quante volte, dal barbiere, queste parole hanno fatto da incipit a un serissimo dibattito politico, a un gossip tutto corna e gollettóni oppure a un aspro battibecco incentrato sul fuorigioco «che c'era o non c'era»? Tante volte, specie anni fa, quando gli artigiani della barba impazzavano. Per chi non ha la fortuna dei ricordi personali, oggi si può tuttavia rimanere ancora rapiti da quella malinconica nostalgia del tempo che fu. Basta mettere piede in una delle ultime botteghe da figaro «vecchio stampo» ed è come versare gazzosa sulla pelle abbrustolita dal sole; un'esperienza agrodolce, da brividi. D'altronde le epoche si susseguono, una dietro l'altra, e alcuni aspetti della vita sono destinati giocoforza a cambiare: «purtroppo», come aggiungerebbero quelli della vecchia guardia. Ma, si sa, questo fa parte del gioco, della naturale evoluzione del costume. Così, piano piano, agli stilisti del capello brillantato si sono sostituiti gli esterofili «coiffeur» ed «hairstylist» dalle insegne arcobaleno e dagli interni alla moda, nella quasi totalità dei casi «unisex». Entrare nel negozio d'un parrucchiere della vecchia scuola è però tutta un'altra cosa. La porta disadorna, di vetro trasparente; le poltrone beige e gli specchi scelti col gusto per l'essenziale; i recipienti smaltati e i vaporizzatori per l'acqua di Colonia; tutti particolari che di primo acchito sembrano freddi, ma che invece, se ben soppesati, si rivelano più caldi e romantici d'un caminetto nuovo di zecca. Semplicemente perché sono legati alle nostre radici.
Il taglio «alla Buse». «Prima della Seconda Guerra Mondiale – ci racconta il barbiere in pensione Guido Bruschi, classe 1920, Cavaliere dell'ordine al merito della Repubblica Italiana – si facevano molte barbe; cosa che ci faceva lavorare tanto e guadagnare poco. Pensate che era usanza fare gli abbonamenti: 8 lire per 10 barbe. E, data l'enorme affluenza di clienti che volevano la pelle liscia durante il giorno di festa, si stava aperti anche la domenica. Qualche numero? Nel '38, nel negozio che avevo in subaffitto in via Mastacchi, contavo 120 abbonati, che erano pari a circa 400 servizi alla settimana». Livornese purosangue, Bruschi è ancora noto in città come il «barbiere rosso», soprannome che gli fu dato sia per il colore dei capelli, sia per la lunga e intensa attività politica svolta prima nel Pci e poi nei Ds, soprattutto nel sociale. Tra i fondatori della Confederazione Nazionale Artigianato, è stato perfino giornalista collaboratore de «L'Unità». Eccolo qua, dunque: un vero personaggio, di quelli sanguigni. Che, come se non bastasse, avendo avuto a che fare con forbici, pennelli e rasoi per ben 64 anni (interrotti soltanto dalla chiamata alle armi durante la Seconda Guerra Mondiale), può oltretutto dire d'averne viste delle belle anche sul versante delle mode. Un assaggio? «Dal '30 al '35 la maggior parte dei clienti voleva l'acconciatura «alla Mascagni», cioè la chioma alta e fluente proprio come quella del celebre musicista. Invece, a partire dal '37, la gente iniziò a chiedere i capelli «alla Buse» o «alla Busoni», vale a dire a spazzola, come li portava il calciatore del Livorno Giovanni Busoni. Fuori città la stessa acconciatura si chiamava però «alla Umberta», dal taglio di capelli del re d'Italia Umberto II di Savoia».
Barba e capelli: 3 lire. Guido Bruschi iniziò a «bazzicare» i negozi di parrucchieri nel 1930, lavorando come ragazzo di bottega nel salone «Corsi» di piazza Grande. Niente di che: inizialmente faceva le pulizie e portava l'acqua per fare le barbe, cose così. E proprio allora il piccolo Guido conobbe Nedo Nadi, leggenda olimpionica della scherma. Dal '35 in avanti, facendo pratica presso altri saloni, il giovane Bruschi entrò prima a far parte di quella truppa di giovanotti chiamati a quei tempi «bardotti» (considerati a metà strada tra il lavorante e il bimbo di bottega) e poi divenne lavorante a tutti gli effetti. Ma fu il 1938 che lo vide fare il salto di qualità, quando riuscì ad ottenere in subaffitto l'attività di via Mastacchi di Leonardo Leonardi, parrucchiere che andava e veniva dal carcere perché comunista. Tutto filò piuttosto liscio (botte dei fascisti a parte) fino a che, all'inizio del conflitto mondiale, il ragazzo venne mandato al fronte, in Sicilia. Al suo ritorno a Livorno, scoprì però che la bottega di via Mastacchi era stata distrutta dai bombardamenti. Da qui – correva il lontano 1944 – la decisione d'aprire, stavolta come titolare, un negozio di barbiere in via Provinciale Pisana. Dove lavorerà sino al 1994, vantando così, in tutto, quasi 64 anni di mestiere. Un lavoro fatto con passione, pieno di soddisfazioni, che gli ha consentito di farsi una bella famiglia. Anche se, a onor del vero, tra guadagni contenuti e svolte epocali non sempre è stato tutto rose e fiori. «Prima della guerra – ricorda – il taglio dei capelli costava 2 lire. Mentre barba e capelli venivano 3 lire. E, a quel tempo, non esisteva fare lo shampoo: tanta brillantina alla Rodolfo Valentino e via. Ma, nel Dopoguerra, ecco il giro di boa: la gente cominciò a farsi la barba a casa con le lamette usa e getta. Il che fu l'inizio della fine per la professione del barbiere intesa in senso stretto. Dei 600 esercizi di barbiere che c'erano a Livorno dopo la Liberazione, oggi, nel 2006, ne sono sopravvissuti una decina». Certo, in città con la vecchia autorizzazione ne sono rimasti circa 10: dato confermato anche da Donatella Calò dell'ufficio coordinamento mestieri e adesioni della Cna.
Gli anni '50 e la politica. Eh sì: era finita un'epoca. E subito ne era iniziata un'altra, però. Negli anni '50 la tipica attività di barbiere cominciò a cambiare le proprie sembianze, perdendo mano a mano il lato che la rendeva, come dire, più «frivola». Si politicizzò, smettendo gradualmente d'essere soltanto un luogo di socializzazione e iniziando ad assumere il profilo d'un ritrovo animato da accesi dibattiti politici. Mentre prima del conflitto, oltre a chiacchierare per ore di tutto, poteva capitare che in un salone – naturalmente gremito di clienti – si giocasse una partita a carte sopra un tavolo in un angolo o che s'intonasse una canzone popolare accompagnata da un mandolino, nel periodo della Guerra Fredda «la mia bottega di Fiorentina pareva una sezione del Pci», ammette Bruschi. Niente più allegri bivacchi, quindi. Né racconti di presunte vincite ai cavalli o prestazioni sovrumane con ragazze avvenenti. Bensì tanto impegno politico sul campo, a volte esasperato. Durante gli Anni di Piombo in tanti passarono dalla bottega del «barbiere rosso». Alcuni di loro, col tempo, ebbero successo in politica: tra i più recenti, ricordiamo Marco Susini, oggi deputato diessino. Ma, in seguito, ecco l'altra svolta epocale. Intorno agli anni '80, per via del boom dei saloni «unisex», a Livorno molti barbieri della vecchia guardia chiusero infatti i battenti. E, di conseguenza, nelle botteghe di acconciature la componente politica andò via via scemando.
Meglio oggi. Al di là della politicizzazione, dalla fine della guerra in poi anche diversi artisti divennero clienti di Bruschi: tra questi, l'attore di vernacolo Gino Lena e il povero Ascanio Citi, cantante scomparso prematuramente che sfondò a livello nazionale. Insomma, come già sottolineato in precedenza, in più di 60 anni di lavoro Guido Bruschi ne ha davvero viste di cotte e di crude, da ogni versante. Quindi, dal punto di vista esclusivo di chi ha maneggiato forbici per oltre mezzo secolo, che ci potrà mai dire della vita del barbiere? Meglio oggi o meglio ieri? «Oggi – osserva Guido – gli acconciatori stanno meglio di ieri. Difatti non c'è più quella sudditanza tra cliente e parrucchiere che, un tempo, ci imponeva di soddisfare qualsiasi capriccio dell'uomo seduto sulla poltrona e, oltretutto, di sopportare la sua boria, specie se era una persona in vista. Un esempio? Quando, qualche anno prima del '38, ero lavorante presso il salone «Carlozzi» di via Grande, dovevamo aspettare i clienti fino a mezzanotte perché l'opera al teatro Goldoni finiva a quell'ora e c'era chi pretendeva di farsi la barba dopo lo spettacolo». «Inoltre adesso – conclude – un parrucchiere guadagna piuttosto bene. Ai miei tempi, invece, si incassava pochino. E, per di più, si lavorava come muli: dopo una maratona di 60 barbe dalle 8 alle 14 – magari di domenica – un barbiere era sfinito, non sentiva più le mani».

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