Umberto Rina, il parrucchiere di Armando Picchi

Livorno. «Mi sono sempre rifiutato di fare la barba ai miei clienti. A tutti, tranne che a Armando Picchi». Affabile, simpatico, verace: a parlare è Umberto Rina, parrucchiere labronico conosciuto in città. Il quale, durante l'arco della sua vita, ha visto transitare dalla propria attività molti personaggi che hanno fatto la storia di Livorno. Nato nel 1927, oggi Rina si gode la pensione con la moglie Maria Lupi, da bravo «babbo» non sa nascondere una tangibile fierezza nei confronti del figlio Giacomo (che gestisce il negozio d'abbigliamento «Bolgheri» di via Marradi), e passa il tempo coltivando le passioni della sua vita, ossia il canto, la musica classica e l'amore per la pittura. Del resto ha impugnato i ferri del mestiere per quasi cinquant'anni, prima nella bottega di piazza G. Paolo Bartolommei (dal '57 al '65), poi nell'esercizio di via Ginori (dal '65 al 2003), sempre come titolare. E di «pezzi da novanta» ne ha conosciuti, e non pochi. Primo fra tutti, Armando Picchi, calciatore livornese leggendario, del quale fu amico e con il quale condivise le scorribande di gioventù.
«Armando - racconta - era una persona meravigliosa: intelligente, schietto, dall'animo buono. Io e lui eravamo davvero amici. Mi ricordo che una sera cenammo ai Bagni Fiume - c'erano, tra gli altri, Mario Picchi, Enrico Capecchi, Giuliano Campi, Niki Martinelli e Massimiliano Ferretti - e, dopo, improvvisammo una partitella fuori dello stabilimento. Avevamo il pallone nel sangue, non si poteva fare a meno di giocare. In palio? La cena, è chiaro. Profondamente religioso, una volta «Armandino» mi trascinò addirittura alla Messa di Natale. E un'altra volta andammo tutti insieme in una «casa chiusa» vicino all'ospedale. Ma Armando non si smentì affatto: infatti, non entrò».
Eh, sì. Perché un campione si riconosce dal cuore. E dal coraggio, dall'altruismo, dalla fantasia. Armando Picchi era questo e anche di più. Era un «libero»; gente pregiata del calcio, di quelli che hanno il pallone prima nel cuore e poi tra i piedi. Il suo viso scavato da marinaio divenne la bandiera d'una compagine che ha fatto la storia del calcio italiano. All'Inter dal '60 al '67, il carisma e il talento da fuoriclasse lo vollero capitano nerazzurro. In seguito, militò a Varese. Ma il destino non fu tenero con lui. Nel '68, a Sofia, un grave incidente, durante un incontro con la nazionale, ne stroncò la carriera. Dopo aver vinto tre scudetti, due coppe europee e due coppe intercontinentali, poteva diventare un grande allenatore. Iniziò col suo Livorno, in serie B, nella stagione 1969-70, a campionato iniziato. Gli amaranto navigavano in cattive acque, ultimi dopo il girone d'andata. La squadra si salvò, chiudendo al nono posto. Fu allora che arrivò, dall'alto, una proposta fantastica, che lui accettò. E così, a soli 35 anni, sedendo sulla panchina della Juventus, Picchi divenne l'allenatore più giovane della serie A. Purtroppo, però, su quella panchina durò pochi mesi: difatti un male incurabile lo strappò anzitempo alla vita. «Armandino», comunque, è stato un campione come oggi non ce ne sono più. Perché una volta l'universo del calcio era un'altra cosa e anche i calciatori che emergevano erano un'altra cosa.
«Armando - prosegue Rina - accompagnò nella mia bottega anche alcuni suoi colleghi dell'Inter, tra i quali Jair Da Costa, Luisito Suarez, Tarcisio Burgnich e Aristide Guarneri. Rammento persino che a Suarez insegnavamo i modi di dire livornesi... e anche qualche parolaccia».
Ma altri «pezzi grossi» hanno calpestato le mattonelle del negozio di Umberto Rina. Chi? Per esempio, Costanzo Balleri (detto «Lupo»), altra stella labronica del pallone, il maestro Paolo Ghiglia (del quale Umberto possiede tre quadri), gli imprenditori Tito Neri e Cesare e Marcello Fremura. Aneddoti curiosi? Si sprecano. Come questo: «Accanto alla mia attività c'era la birreria dei soci Gino e Cesare, dove i portuali - tra cui diversi personaggi noti della Livorno che fu, come i Brondi, i Miniati e i Vanni - andavano a prendere le note con le quali venivano chiamati a lavorare. Loro sbirciavano pian pianino le note e, una volta riconosciuto il proprio nome, data la poca voglia di lavorare, sbattevano forte il pugno sul bancone. Quanti tavoli rotti! E che risate!»
Risate gustose che Umberto fa ancora adesso quando gioca a carte con gli amici Pinucci, Ferretti, Gambacciani, Agretti e Pizzi. Tra una litigata e l'altra e, soprattutto, tra un amarcord e l'altro.

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