Da Livorno a Tokyo si reinventa la vita da sensei della pizza

Livorno. «Nell'Impero del Sol Levante uno che è nato e vissuto a Livorno deve armarsi di pazienza. Specie per quanto riguarda la concezione del lavoro, è meglio che smetta di pensarla alla livornese, dato che qui, in Giappone, si lavora in media dalle dieci alle dodici ore al giorno. Ma è pur vero che da queste parti un livornese di scoglio deve saper valorizzare le proprie qualità distintive, poiché è la via giusta per farsi benvolere. Per intenderci: dove lavoro adesso con la simpatia e la spontaneità ho fatto sì che si viva in un clima di allegria, più informale. I miei colleghi infatti non si inchinano più davanti ai clienti, ma scherzano e salutano con un “ciao”. E questo, incredibile ma vero, alla clientela piace un sacco»: la testimonianza di Alberto Lotti, classe 1974, livornese purosangue, sprizza arguzia e vivacità. E ci descrive, come vedremo, un universo futuristico, per noi forse inconcepibile, in cui si può essere unici sia nei pregi che nei difetti e dove la tradizione e la modernità si fondono contraddicendosi a vicenda, seppure con armonia. Ma per raccontare la “sua” Terra del Sole Nascente dobbiamo fare un passo indietro di dieci anni.
Galeotto fu il ponce, poiché fu proprio al bar Civili di via del Vigna che nel 2005 Alberto conobbe Naoko, una graziosa ragazza giapponese in Italia per studio, che l'anno seguente sarebbe diventata sua moglie: un matrimonio organizzato con frettolosità affinché mamma Carla lo potesse vedere con la fede al dito prima di mancare. Una volta convolati a nozze, Alberto e Naoko presero la decisione di trasferirsi in pianta stabile in Giappone: misero piede sull'isola di Honshu, più precisamente a Tokyo, capitale dalla “conurbazione” di decine di milioni di abitanti, un anno dopo, nel 2007. «Ero cresciuto – racconta Lotti – con i manga e gli anime nipponici ed ero molto incuriosito dagli usi e costumi del Giappone, alcuni dei quali ancora legati al codice dei samurai. Pur amando Livorno, eccezion fatta per i legami familiari, ossia mio padre Luciano e mia sorella Melania, non avevo più stimoli che mi convincessero a restarvi. Perciò capii che era il momento di partire. Ero eccitato all'idea di venire a vivere quaggiù, anche se, in verità, la mia preoccupazione principale era imparare la lingua».
I due giovani andarono ad abitare nel quartiere Shibuya, una delle zone più dinamiche della metropoli. «Fui sorpreso – sottolinea – dal “caos perfetto” che impera per le vie. Shibuya è illuminato notte e giorno da megaschermi a volume altissimo, presenti su tutti gli edifici, e vi si può trovare una strabiliante varietà di negozi, ristoranti e hotel. Dappertutto maree di persone procedono ordinatamente, specie in prossimità del grande crocevia di Shibuya, il più trafficato al mondo, dove hanno girato scene di “Resident Evil” e “Fast and Furious”». Ma Alberto fu impressionato anche dall'automazione presente ovunque e dalla fitta rete di trasporti stradali, ferroviari, aerei e marittimi che caratterizza l'immenso agglomerato urbano ai piedi del Monte Fuji. Solo ad esempio, restò sbalordito dalla strepitosa metropolitana tentacolare e dal castello di autostrade a quattro corsie sormontate dai binari della ferrovia a loro volta sovrastati da passaggi pedonali e altre strade secondarie. Tutto preciso, puntuale, da fantascienza. E tutto pulito e tirato a lucido: l'alto senso civico dei giapponesi consente che per strada non si trovi neanche un mozzicone di sigaretta.
«Qua di lavoro ce n'è a volontà», dice Lotti. «Difatti nel giro di una settimana – prosegue – iniziai a lavorare come pizzaiolo in un ristorante di Omotesando, la zona più modaiola e stilosa di Tokyo, dove ci sono Ferrari e Lamborghini parcheggiate ad ogni angolo e negozi di Louis Vuitton, Gucci, Dior e Prada. In tutta sincerità non mi trovai subito bene, poiché per un giapponese il lavoro è sacro e faticare per dieci-dodici ore consecutive è pressoché la norma: io non ci ero abituato. Eppure in poco tempo mi adattai ai loro ritmi, a volte superandoli, dunque meritandomi il loro rispetto. E l'affabilità e la schiettezza tipicamente labroniche furono la ciliegina sulla torta».
Dal Giappone con furore: per i due giovani da allora in poi fu tutta una discesa. Oggi Naoko è impiegata nel settore import/export e lui è invece capopizzaiolo, cioè un vero e proprio “sensei” con relativi allievi, e lavora in due ristoranti: uno è il “Bamboo” di Omotesando mentre l'altro si trova a Oiso Long Beach, una località marittima simile a Livorno, ed è da rilevare che quest’ultimo sia nella Guida Michelin anche grazie alle sue pizze. Inoltre, in ricordo dei vecchi tempi del Sale, spesso Alberto va a fare surf a Minamiizu. E alla fin fine con la lingua nipponica se l'è cavata bene. 
«Nel 2014 siamo tornati a Livorno – continua – perché la mia nostalgia era tanta. Ma le molte delusioni ci hanno costretti a tornare a Tokyo. Il fatto è che il Giappone, pur con i suoi difetti, in pratica funziona bene su tutti i versanti. Per esempio, il servizio sanitario è eccezionale: puoi fare un check-up completo in un paio d'ore e avere subito i risultati con tanto di medico che te li illustra, senza aspettare mesi». Ma nella testimonianza di Lotti non mancano i “però”: «Ho sei giornate di riposo al mese e quindi ho poco tempo libero per coltivare amicizie, a parte quelle per Antonio “il siciliano” e Maurizio “il fiorentino”, che mi hanno aiutato sin dall'inizio. Purtroppo, in genere, i giapponesi seguono la routine alla perfezione, programmano tutto anche nella vita privata, pensano sempre al futuro e non si godono granché il presente: e questo è un peccato, almeno secondo me. Una volta, mentre lavoravo in un bar-ristorante del distretto di Nakameguro, è entrato un tipo con una bambola gonfiabile vestita da liceale e ha ordinato due caffè. Questo mi ha fatto riflettere su quanto possa essere profonda la solitudine di molti di loro».

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