Le scampagnate primaverili

(tratto dal libro di satira e umorismo "Noi cugi") 
 
 
Chi siamo? Da dove veniamo? E perché siamo qui? Qual è la natura del nostro cammino? Dove ci sta portando? Siamo delle stringhe di neuroni? O delle caàte semiliquide? Rosso di sera, ergo non si tromba? E qual è l’anello mancante tra il cugi Erectus e l’Homo cùgiens? Risiedono forse nel mito le cronache della preistoria cugésca? Ma soprattutto: chi ha finito il Fernet-Branca? Quesiti complessi, questi, sopra i quali i cugi dormono preoccupatissimi ogni notte e che sono soliti affidare alla scienza e alla religione, senza realizzare che viceversa potrebbero trovare risposta in seno alla rivoluzionaria teoria elaborata da una équipe di eminenti scienziati di Castellammare di Stabia. Secondo i quali la razza cugésca sarebbe null’altro che l’ibrida discendenza d’una specie extraterrestre proveniente dal pianeta Saturnino, sito nella Galassia di Menelìk: sarebbe a dire la tribù delle Cappelle Flambé, esseri intelligentissimi dal corpo di capra, la coda di serpente e la testa di cazzo. Considerando tuttavia il tradizionale deficit cerebrale del cugi (che dire infatti delle nottate trascorse a redigere listati chilometrici sul Commodore 64 solo per vedere comparire “ciao!” oppure “pùppamelo!” sullo schermo?), non deve destare meraviglia il fatto – e lo diciamo con tutto l’amore del mondo – che la “Teoria delle Cappelle Flambé” sia troppo arzigogolata per poter essere presa in considerazione dalla specie cugésca. Ma ora, cari lettori, dobbiamo informarvi che ci scappa di tornare a trattare d’argomenti a localizzazione terrestre...
Quando arriva la primavera, assicurandosi la naturale abbronzatura a macchia di leopardo dei primi timidi soli, i cugi possono vivaddio risparmiare tutti quei soldi che nel corso dei mesi freddi hanno dilapidato nelle lampade a raggi protonici di Jeeg Robot d’Acciaio (o raggi UV-A, forse). Fuggono dall’opaco grigiore cittadino dunque, librandosi leggeri all’aria aperta per esibire il gonfiore dei muscoli stimolati tutto l’inverno in palestra durante le faticose sedute di body building e per ammirare alla sincera luce solare, eccitati come tarli nel legno, i primi culetti in fiore. Diktat: trombare. D’altra parte, secondo l’“Accordo categorico col cugi”, “il mondo è stato creato in maniera giusta e il cugi è buono, per cui fa bene a moltiplicarsi” (precetto della “Genesi del cugi”).
Meta particolarmente ambita dai nostri impavidi filibustieri, soprattutto in occasione delle festività del Lunedì dell’Angelo, della Festa della Liberazione e della Festa del Lavoro, era il “lago caldo” di Venturina, dove orde di cugi si recavano per passare un bel pomeriggio sguazzando in questa tiepida pozza. È tuttora ben lungi il comprendere se il grado di calore di queste acque fosse dovuto a cause naturali oppure “ad abnormi minzioni di qualche bagnante birbone, il che spiegherebbe il tenue color paglierino, molto glamour” (cfr.: Nello Monopalla, “A me me lo sbocconcellate”, Edizioni “Lavati, che sei intriso d’olio”, Livorno 1985 d. C.).
Un altro luogo dove il cugi trascorreva le festività primaverili era l’“Orso Bianco” di Vada, all’interno del quale passava un piacevole pomeriggio tra gare di velocità su go-kart, partite di calciobalilla e di ping-pong, corteggiamenti delle topìne del circondario e un sacco di puntàte di rimando. Solo i cugi a vapore si cimentavano però nel pattinaggio a rotelle, la principale attrattiva del posto, esibendosi in spericolate evoluzioni e sfrecciando supersonici tra gruppi di fìe isteriche, mantenendo oltretutto un’espressione facciale che lasciava intuire una concentrazione fatta di cemento armato, da vero professionista dello sport. I “cugi barzòtti”, per evitare compromettenti figuracce, si limitavano a osservare le ragazze da fuori della pista di pattinaggio, criticando aspramente i cugi a vapore che volavano a somiglianza di atleti superumani. Sul far della sera tuttavia, con la pista sgombra, era affatto raro vedere quelle stesse malelingue rose dall’invidia cercare disperatamente d’impadronirsi dell’arte suprema del pattino olimpico.
Torquato, detto “Valanga” non tanto per la mole quanto per l’incoscienza da slavina nel pattinaggio, era considerato uno spaventoso fuoriclasse e, nonostante venisse spesso apostrofato dai cugi meno bravi con gentili epiteti tipo “testina a rotelle” o “rollerblade di merda”, riusciva sempre a beccare delle cifre industriali di fìe. E che tecnica! Quando una cugétta ruzzolava, Torquato la soccorreva con astuta galanteria, attaccando bottone in questa maniera:
– Ti se’ fatta male? No, vero? ’Un ti preoccupà: t’inzégno io a pattinà!
Contemporaneamente pensando:
– Ora ti càa l’orso!
E le fìe, vuoi per riconoscenza, vuoi per la voglia d’imparare, alla fine ci stavano.
Altra località dove i cugi si recavano in massa per la classica scampagnata di primavera era il parco di San Rossore. Le favolose distese d’erba di questa riserva naturale, poco frequentate per la maggior parte dell’anno, venivano in questo periodo letteralmente invase da battaglioni di pivelli motorizzati pisani e livornesi (due milioni e quattrocentomila per i cugi, cinquantasette per la spia di questura Bavosa Linguàcci): pivelli che, come cavallereschi guerrieri, incedevano minacciosi verso il campo di battaglia per disputare dei veri e propri duelli all’ultimo sangue allo scopo d’assicurarsi la simpatia del gentilsesso, di qualsivoglia città fosse stato. Sarebbe successo il finimondo? Non scervellatevi nel formulare una risposta: era una domanda retorica.
“Ma non di sola topa vive il cugi” afferma lo spurio-Aristotele, che evidentemente non era cugi, ma di sicuro un tantino gay-friendly. Infatti le sfide a San Rossore attenevano pure all’affermazione della supremazia della bandiera amaranto su quella nerazzurra dei pisani. Qualche esempio: se un livornese era ferrato nel motocross doveva per forza sfondare il muro del suono sgassando malvagio tra i pestamerde pisani, ovviamente cercando d’alzare più polverone possibile per farlo poi posare nel riso freddo che questi stavano divorando alacremente; se invece era uno specialista nel far brillare le mine nelle cave, a bello studio ne doveva fare esplodere una sotto la loro auto mentre schiacciavano il pisolino pomeridiano.
Oltre al derby calcistico Livorno-Pisa e ai gavettóni di Ferragosto a Tirrenia (sui quali non ci soffermeremo più di tanto per risparmiare al lettore l’imbarazzo nel percepire la violenza gratuita insita in taluni appuntamenti), per i cugi livornesi l’altra valvola di sfogo per liberare l’aggressività e canalizzarla contro i pisani restava comunque la tradizionale partitella di pallone, che ogni anno si svolgeva su questi prati suggestivi e si risolveva puntualmente in un’impegnativa caccia al malleolo per la gioia degli infermieri del vicino ospedale.
– Gaò! S’è vinto! – esclamava il giovane citrullo dell’escrementizia città della torre pendente, affogando nella propria cristallina idiozia.
– Ma allora sei duro ’óme le pine verdi, accidentatté! S’è vinto noi! – replicava sobriamente il classico brutto ceffo labronico. E giù botte da orbi...
 

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