Un Cd caldo caldo di Rondelli

Livorno. Dai tempi di ««Ho picchiato la testa» degli Ottavo Padiglione ne è passata d’acqua sotto i ponti. Ma si tratta della più bell’acqua, se ha permesso ad un artista verace e carismatico - un vero animale da palcoscenico - come Roberto «Bobo» Rondelli di maturare in maniera esponenziale sino a diventare il personaggio che è oggi: autore e musicista d’ampio spessore, attore talentoso, voce inconfondibile, con un pubblico appassionato.
Insomma, un personaggio che - durante la conferenza stampa di presentazione del suo ultimo Cd «Disperati intellettuali ubriaconi» («Arroyo Records» / «Venus Distribuzione») tenutasi sabato mattina al «Factory Art Cafè» di via Ganucci - non ha potuto fare a meno di tradire la solita simpatia sanguigna che lo ha fatto oltremodo benvolere dai più lungo la sua rampa artistica.
«Questo lavoro - esordisce Bobo Rondelli - è un tentativo di raccontare la propria città, il proprio blues, mischiando spirito goliardico e amarezza. «Gigiballa», l’orso dello zoo di Livorno che ballava a causa del mal di denti, può essere interpretato come la figura d’un qualsiasi perdente della nostra società. Temi neppure toccati dalla musica «pop» che, incatenata alle leggi di mercato, tenta d’omologare i giovani e spezzare il vincolo con la terra d’origine. Io, comunque, aggrappato ai miei scogli, continuo a non avere paura e a continuare per la mia strada. Se poi, alle solite, i miei prodotti si rivolgono a coloro che non hanno soldi per acquistarlo, che li masterizzino pure!».
Scherzoso, ironico, schietto, dissacratore, talvolta sboccato, ma sicuramente sagace e pieno di talento. Bobo è così, prendere o lasciare. Ma che musica, maestro! Una fatica musicale che si è potuta avvalere nientemeno che della produzione artistica e degli arrangiamenti del ventottenne milanese Stefano Bollani, considerato dagli addetti ai lavori quale uno dei migliori dieci musicisti jazz a livello mondiale. Frutto dell’incrocio tra due diverse sensibilità artistiche, il Cd, passando attraverso l’omaggio a Luigi Tenco e Piero Ciampi, fonde il mondo ironico e malinconico della canzone d’autore con i più eccellenti virtuosismi jazz. Ragion per cui, secondo il parere d’alcuni esperti, può essere stimato come uno degli album italiani più belli degli ultimi tempi.
«In soli dieci giorni questo album - dice Nicola Zaccardi dell’etichetta discografica pisana «Arroyo Records» - ha confermato le vendite del lavoro precedente; e questo, nella palude della discografia italiana che attualmente sta attraversando la sua crisi più nera, è un dato rilevante. La cordata degli enti che hanno creduto e quindi finanziato questo progetto ha dato dei buoni frutti, nonostante in Italia funzionino quasi esclusivamente le formule standard a discapito della musica popolare».
«Il Cd di Bobo - a parlare è adesso Massimo Mangoni, responsabile del settore «cultura» dell’Arci di Livorno - ha visto la collaborazione dell’Arci labronica e dell’associazione «Piero Ciampi», a significare l’impegno da parte di queste organizzazioni, attraverso le varie iniziative che abbiamo organizzato e organizzeremo in futuro, di proporre la musica come risorsa fondamentale per migliorare la qualità della vita delle persone. E, inoltre, se si prende in considerazione il fatto che la musica è oltretutto un elemento trainante d’una dinamica economica spesso sottovalutata, ecco che il quadro può risultare più chiaro». Da segnalare che «Disperati intellettuali ubriaconi» verrà presentato dal vivo in occasione della prossima edizione del «Premio Ciampi». «Premio che - come tiene a sottolineare Mangoni - nel dicembre del Duemila è stato riportato da una rivista patinata della De Agostini come uno dei quindici appuntamenti assolutamente imperdibili a livello mondiale».

Migone, ironia al vetriolo

Livorno. Con quell’occhio nero che si staglia sotto un alveare di ricci liberty e il candido spolverino spiritualmente poco compatibile con la sua ironia, il livornese Paolo Migone, ritagliandosi un ruolo di primo piano nello «Zelig» televisivo, si è fatto conoscere al grande pubblico. E grazie allo spot d’una nota marca di birra, nel quale la sua vena umoristica (in grado, di fatto, di calamitare l’attenzione del telespettatore) procedeva a briglia sciolta nel bailamme delle noiose pubblicità dell’etere, la sua popolarità è ulteriormente cresciuta. Ma, nonostante ciò, da buon patito dello scoglio labronico, mai si è dimenticato della sua città natale. E, proprio perché il primo amore non si scorda mai, sabato sera Migone è tornato a calcare la scena livornese, stendendo, con la sua satira tagliente e ricca di trovate verbali, gli spettatori dell’«Agip Petroli Club».
Uno spettacolo coi fiocchi, che ha visto aprirsi il sipario su una spietata singolar tenzone a colpi di spada tra papà Migone e il piccolissimo Bernardo. Poi, imbracciata la sua arma di precisione con proiettili al vetriolo, è iniziato il martirio. Il numero delle vittime finite nel mirino della sua brillante analisi socio-politica in chiave cabarettistica? Ignoto.
Inizialmente Migone, senza peli sulla lingua, ha preso infatti di mira lo «svincolóne» del Maroccone progettato dall’«ingegner Taboga», nel quale, data la ridondanza di raccordi e cartelli, «non è escluso che ci si possa perdere e trovare su una strada che viene dalle viscere della terra, magari di fronte a Nosferatu in persona». Ipotetico ingegnere di fama - il Taboga - che non poteva non figurare anche nel progetto del «poppóne», ossia del nuovo palazzetto dello sport: «Ma la velina sopra ce la levano o va bene così?» ha tuonato Paolo, oramai riscaldato. E come non lanciare pure una frecciata sulle palme del viale Italia? «Avete visto, finalmente alle palme hanno levato le passate!» E sul nuovo multisala? «Se esci in una sala dove stanno proiettando una storia d’amore e in quella accanto c’è un film di guerra, ti arrivano le mine sul groppóne!».
In seguito, ha raggiunto l’apice massacrando bonariamente vizi e virtù delle genti di Livorno. «I livornesi sono come i Maya: sono fissati con l’oro. Con le catene che portano al collo ci agguantano le navi!» e «i nostri giovani hanno dei seri problemi a sincronizzare il cervello con la lingua. Prima fanno partire il pensiero a caso, poi attaccano la lingua: e, se ogni tanto coincide qualcosa, è tutto grasso che cola!». Poi ha bersagliato gli usi e costumi più grotteschi della società italiana, accanendosi contro i quiz televisivi, «che ci nebulizzano il livello mentale», e sparando all’impazzata su veline, letterine, presentatori e compagnia bella. Con una puntatina anche sul rapporto di coppia, nel quale la donna è «l’orsetto lavatore» che, nelle faccende domestiche, toglie lo sporco possibile... pur dimostrando una spiccata propensione anche verso l’impossibile.
E, alla fine, non poteva mancare che lui: il «Silvio di Nazareth». Colui che, dopo essersi comprato la Sardegna, ed averla divisa in ville, fu colto da una tremenda perplessità: «Ma, se questa villa è mia e tutto lo spazio intorno è mio, che cazzo me ne faccio del cancello?»

Il dj che fa ballare il mondo

Livorno. Nell’arena impregnata di nebbiolina artificiale, da qualche parte in Australia o in Germania o in Giappone, mentre il flusso della techno attraversa mente e corpo, il vocalist di turno annuncia il nome del virtuoso in consolle e la pista raggiunge l’apoteosi: al mixer c’è Mario Più, uno tra i più acclamati dj del mondo. Dotato di creatività e intuito, oggi il livornese Mario Più è anche produttore, remixer nonché A & R (insieme al collega Joy Kitikonti) della techno-label BXR, etichetta che anni fa fondò insieme all’amico Mauro Picotto. Una stella discografica dal sound innovativo che fa parte della galassia Media Records, la società fondata a Brescia da Gianfranco Bortolotti, che si è imposta sulla scena mondiale (ha al suo attivo oltre un centinaio di dischi d’oro e di platino) come realtà discografica indipendente. Oggi la Media Records ha succursali in Usa, Inghilterra, Germania, Spagna, Francia, Danimarca e Paesi Bassi. Tra i suoi artisti, tanto per citarne alcuni, More, Gigi D’Agostino e Massimo Cominotto, altri indiscussi protagonisti dell’entertainment.
Gli esordi. All’anagrafe Mario Piperno, nato a Livorno il 26 agosto del 1965, Mario Più ha iniziato la carriera di disc-jockey professionista da giovanissimo, verso la fine degli anni Ottanta. I primi dischi - house music con qualche contaminazione techno Detroit - furono posati, grazie a Raul Giovannoni e Carlo Magni, sui piatti della Barcaccina di Vada. In seguito, tappa da patron Guidi, presso le Spianate di Castiglioncello. Ma soltanto più tardi, a Tirrenia, Mario ebbe l’occasione di farsi conoscere ed apprezzare dal popolo della notte: la discoteca era il Club Imperiale di Roberto Pannocchia, la persona che lo battezzò col fortunatissimo pseudonimo di Mario Più. Poi l’approdo, insieme ai colleghi Francesco Farfa e Miki, all’Insomnia di Ponsacco, locale simbolo degli anni Novanta. Insomma, Mario appartiene a quel movimento di dj e musicisti che hanno cambiato le notti di tendenza del nostro paese a partire da una regione, la Toscana, che ha contribuito all’affermazione della techno in Italia.
La musica. «La musica - osserva Mario - è un linguaggio universale che unisce come un filo sottile i ragazzi di tutto il pianeta. I quali, cosa stupefacente, riescono a provare le stesse emozioni, indipendentemente che siano australiani oppure finlandesi o altro. Credo sia questo il segreto: rendere comprensibile a tutti il proprio messaggio». E aggiunge: «II mio genere? Cerco di sperimentare per reinventare, per cercare un linguaggio nuovo, anche se le mie radici rimangono la techno e l’elettronica. Comunque non amo le etichette; diciamo che mi impegno per produrre dischi che, in generale, possano trasmettere energia».
Vita da producer. Da molti anni Mario Più è uno degli artisti di spicco della Media Records. Il suo primo lavoro come producer, cioè «The big man have a dream», fu tuttavia stampato su un’altra label, la Interactive. La prima vera hit è stata «Mas experience», proprio su etichetta BXR/Media Records. Da allora, decine e decine sono state le produzioni cui ha partecipato a vario titolo, alle quali ha lasciato la sua impronta talvolta melodica, talora carica di ritmo travolgente. La consacrazione definitiva a livello mondiale è comunque arrivata nel 1999 con «Communication/Somebody answers the phone», brano costruito sulle interferenze dei telefoni cellulari, che ha raggiunto il 5° posto nella «Top 75 Singles Sales Chart» inglese in virtù delle 200.000 copie vendute nel solo Regno Unito (800.000 circa in tutto il mondo). Sulla scia d’un tale successo, nel 2001 è entrato al 54° posto della «Dj Mag’s Top 100». E in Inghilterra, per la sua vena creativa, è stato soprannominato addirittura il «Fatboy Slim Italiano». Con il singolo «Devotion/Once upon a time in the West», ha ripreso ad hoc persino un classico di Ennio Morricone, mentre «The Vision», pezzo del 2002 che ha sconvolto tutti i dancefloors mondiali, è stato suonato da Judge Jules, Pete Tong e Dave Pearce su Radio One e nei loro set.
In famiglia. In «Communication/Somebody answers the phone» (così come in diversi hit-singles del deejay) a cantare è More, altra punta di diamante della scuderia Media Records nonché moglie di Mario. Un sodalizio che sta dando splendidi frutti: «Di recente - racconta Mario - ho avuto la più bella produzione della mia vita: mia figlia Ginevra. Sono felicissimo. Il mio ultimo disco è proprio dedicato a lei e si intitola «Incanto per Ginevra». Ma l’amore per il mixer pare sia inscritto nel dna dei Piperno: infatti anche Davide (in arte David Lead), fratello più giovane di Mario, è un dj di talento che, proprio adesso, si sta cimentando in varie produzioni musicali.
Il segreto del successo. «Diventare Mario Più - confessa - non è stato semplice. Ma con le dovute capacità e un pizzico di fortuna ci si può riuscire. Inoltre, anche trovarsi al posto giusto nel momento giusto aiuta; ma in un frangente del genere si deve assolutamente saper cogliere l’attimo. E, comunque, bisogna spesso essere pronti a tirare fuori gli artigli e i denti. In tutta sincerità, devo dire che sono emerso proprio all’alba delle nuove tendenze musicali, vale a dire l’house music e i suoi derivati; fattore che ha agevolato me così come altri djs nati in quel periodo». «L’importante - prosegue - è non cambiare mai atteggiamento nei confronti della gente, ma restare sempre umili e disponibili anche all’apice del successo. Perché è proprio il pubblico che ti spedisce sull’Olimpo e altrettanto velocemente ti disintegra se si accorge che ti sei montato la testa, magari se snobbi un autografo o un saluto: il segreto sta nel conservare sempre l’umiltà».
Il progetto. Mario Più fa parte del Metempsicosi, team di techno-stars indipendenti, nel quale figurano anche Joy Kitikonti, Sandro Vibot, Ricky Le Roy, Franchino e Zicky: non una semplice agenzia per organizzare serate in tutto il globo, ma un progetto ad hoc basato su comunanza di idee, sound e amicizia. Grazie ad una tale granitica organizzazione, Mario, dopo aver suonato in tutti i locali italiani più in voga, vale a dire Jaiss, Aida, Ecu, Embassy, BXR, Satoshi e Matrix (discoteca - quest’ultima - della quale è socio insieme ai colleghi del Metempsicosi), viene oggi ospitato dai club più prestigiosi d’Europa e del mondo: e cioè all’Arc di New York, al Privilege di Ibiza, al Temple di Dublino, all’U60 di Francoforte, al Passion e allo Slinky, entrambi in Gran Bretagna. È oltretutto un dj del Roadster Gatecrasher, quindi sempre in tour in Malesia, Giappone, Stati Uniti, Canada, Sud America e Australia. «Ho suonato in quasi tutti gli angoli della Terra - dice Mario - ma devo ammettere che il pubblico maggiormente aperto a sonorità particolari è di sicuro quello sudamericano. La Colombia, per esempio, è la nazione dove mi sono sempre divertito, forse perché la folla è composta in maggioranza da belle donne: ma, mi raccomando, non lo dite a mia moglie». Al momento, oltre a toccare altre locations internazionali, Mario Più è di scena al Jaiss di Empoli ed al Matrix di Brescia in qualità di deejay resident «one night a month».

«Io? Doppio!», il trionfo dei Cuculi

Livorno. Tutti pazzi per «Io? Doppio! - Il Baratro» giovedì sera, l’attesissima «prima» dei nuovi doppiaggi in piccante salsa di cacciucco alla livornese a cura di quei beffardi diavolacci del Nido del Cuculo. Un «tutto esaurito» corroborante per la mente e per lo spirito, in cui si è riso di tutto e su tutto, spesso per il timore di essere costretti a piangerne. Come mai? Ma perché, al di là della battuta al napalm che sdrammatizza il disappunto del vivere, i «Cuculi» hanno saputo dribblare il «Baratro» davvero come si deve, giusto per accentàre il fatto che nelle nostre giungle di cemento il «disgregamento economico-culturale» ha oramai guadagnato terreno «a rondemà»; tanta ristorazione, supermarket a iosa e tanto «politichese» che riecheggia nei Palazzi, ma pochi spazi liberi dove pensare decentemente, spalancare gli occhi e, quindi, allargare orizzonti. Ottimi perciò i goliardici abbinamenti tra le tribolazioni della nostra burrosa quotidianità e gli spezzoni - per lo più «evergreen» hollywoodiani - della cinematografia mondiale, che hanno rovesciato risate a dirotto nella sala dell’Agip Petroli Club di viale Ippolito Nievo. E siccome sganasciarsi su tutto ciò che è ridicolo non è davvero un peccato né contro la legge, ecco quindi le voci ruspanti di Paolo Ruffini, Lorenzo Ceccarini, Gabriele Buonomo e Andrea Gambuzza scorrazzare di gran carriera nella mitologia del grande e del piccolo schermo, a seminar paradossi vernacolari a bizzeffe. Messo definitivamente nell’angolo ogni minimo rimasuglio di savoir-faire, come niente si è potuto vedere il Michael Caine di «Fuga per la vittoria», coach della squadra di calcio del Livorno, essere ripreso dalle dritte tattiche d’un Pelè-Igor Protti affetto da aerofagia cronica. O un ispettore Tibbs diessino - il mitico Sidney Poitier - esprimere le proprie perplessità sull’organizzazione della festa de «l’Unità» e, in seguito, sfilare astutamente dalla manica un asso sorprendente: cioè la foto del presidente della Provincia Giorgio Kutufà. E semplicemente perché, in tutta sincerità, «la Margherita vale». Poi, vedere i membri dell’«A-team» quali titolari dal grilletto facile d’una ditta edile sospetta, in  men che non si dica ha riportato gli animi ancora al «Baratro». 
Tra il primo e il secondo tempo, grazie al biglietto d’ingresso, premi ad estrazione per gli amici più intimi della dea bendata. Poi - interpretando Orazio, il poeta delle «Satire» - niente ha impedito di dire di nuovo la verità, ridendo. E, soprattutto, giocando col cinema. Talvolta sbatacchiandolo, specie quando il James Stewart dell’indimenticabile «La vita è meravigliosa» di Frank Capra ha principiato a sparare tante di quelle parolacce da far decorrere Natale e Pasqua contemporaneamente. Onnipresente l’ispettore Tibbs, intento persino a fare uno squillo al sindaco Alessandro Cosimi per farsi «recuperare» un paio d’abbonamenti in curva nord per la stagione calcistica amaranto. E Gandalf il Bianco de «Il signore degli anelli» che va in campeggio all’isola d’Elba? E il Tom Selleck di «Magnum PI» che si sbriciola d’aperitivi nelle nuove baracchine del lungomare? E il premier Silvio Berlusconi che confessa d’essere pisano? Roba da restarci secchi.
I momenti clou dello show? Sia il karaoke col pubblico, sia i doppiaggi dal vivo, con quattro ignari bencreati del pubblico tenuti in ostaggio dal Ruffini e «costretti» a reinterpretare scene del telefilm «Baywatch» e a vestire i panni dello 007 de «Il domani non muore mai», ovvero un leccatissimo Pierce Brosnan che va all’Ipercoop a fare la spesa. Da sottolineare che una parte dell’incasso delle serate andrà a finanziare il «Joe D’Amato Horror Festival» di Halloween, che aprirà i battenti a Livorno il prossimo 28 ottobre. E non mancherà pure un contributo pro-beneficenza, con l’altra parte dell’incasso devoluto a favore dell’Aism, dell’Auser e del Sil, che si occupano, rispettivamente, degli affetti da sclerosi multipla, degli anziani e dei disabili nella sfera sportiva.
Insomma, la firma di Paolo Ruffini alla regia, di Enrico Battocchi alla direzione tecnica, grafica e post-produzione, di Alessio Porquier all’organizzazione generale e, ultime ma non ultime, quelle di Claudia Campolongo e Carlo Bosco alle musiche, hanno ancora una volta decretato il successo a tutto tondo dei doppiaggi in livornesaccio spinto a tavoletta, divenuti, vòx pòpuli vòx dèi, un vero «cult» delle serate labroniche.

Esaurito per 15 spettacoli: oltre 3mila spettatori 

Livorno. Nei secoli passati la Chiesa sapeva distinguere fra le occasioni e le funzioni del «parlare sboccato», considerato (per esempio nella «Teologia morale» di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori) quasi sempre un peccato «gravissimo»; ma se il turpiloquio proveniva dai canti dei mulattieri, dei mietitori, dei vendemmiatori e, ovvio, dei tre gioviali tipacci del «Nido del Cuculo», il peccato - et voilà - si  faceva «lievissimo». Si ruzza, naturalmente. Ma, scherzi a parte, quando ha visto la luce il «Nido»? E chi si cela dietro alle tante idee e all’entusiasmo di questo effervescente sodalizio?
In principio fu. L’associazione cinematografica «Nido del Cuculo» è nata nel novembre del 2000 e si è costituita legalmente nel febbraio del 2001. Aderisce alla «Federazione italiana cineforum», una delle maggiori associazioni del settore, ed il suo elemento catalizzatore è una visione non convenzionale del cinema, sia da un’angolazione critica (recupero di generi e filmografie vittime di selezioni estetiche arbitrarie o sui quali il dibattito si è «cristallizzato»), sia in relazione all’aspetto «sociologico» del vedere, fare o far vedere il cinema (rapporti tra film e pubblico, ottica dello spettatore non abituale ed altri aspetti). Tutto ebbe inizio dall’incontro tra Paolo «Paolino» Ruffini ed Enrico «Lopo» Battocchi, che si conobbero tra i banchi del glorioso liceo classico «Niccolini-Guerrazzi». Fu allora che il «cinefilissimo» Paolo (la cui camera, a quel tempo, era già più fornita della maggior parte delle videoteche cittadine) introdusse Enrico alla settima arte. Alcuni anni e moltissimi film dopo, precisamente nell’autunno del 2000, i due maturarono l’idea di mettere in piedi un cineclub per realizzare una serie d’iniziative. Infine, in una videoteca cittadina incontrarono Alessio «Ruggero» Porquier, anche lui oriundo del liceo classico, e decisero di coinvolgerlo nel progetto.
Il clan dei «cinefilissimi». Presidente dell’associazione, Ruffini è veejay di punta del programma pomeridiano «Select» di Mtv Italia, nel quale cura anche una rubrica cinematografica e le relative interviste ai registi e agli attori ospitati. Diplomato in regia televisiva alla Nuova Università Cinema e Televisione di Roma, ha partecipato a «Ovosodo» e ad alcuni spot e video musicali; in aggiunta, ha maturato esperienze lavorative in qualità d’animatore e organizzatore d’eventi. È amante della filmografia d’alcuni grandi autori americani (Kubrick, Lynch, Cronemberg, Carpenter), del cinema comico (uno su tutti: Chaplin) e di quello trash e a basso budget. Porquier, invece, ha all’attivo alcune produzioni personali (cortometraggi), collabora con Lamberto Giannini nei suoi laboratori teatrali e nelle iniziative che il regista-professore organizza per conto dell’Anffas. I suoi interessi sono diretti verso ogni tipo di cinema, con una particolare propensione per l’horror. Organizzatore del «Nido», cura le pubbliche relazioni ed è promotore e factotum, da 3 anni, dell’«Horror Festival». Battocchi, infine, è il segretario dell’associazione. Laureato in ingegneria informatica presso l’Università di Pisa, è il «tecnico» del gruppo, cioè il responsabile della grafica, del montaggio e del sito internet del team. Ha una predilezione per il cinema muto, d’autore e d’avanguardia.
I numeri di «Io? Doppio!». Qualche dato? A partire dal settembre del 2001, gli spettatori complessivi delle 9 precedenti edizioni di «Io? Doppio!» sono stati circa 5.500, senza contare le altre migliaia di visitatori degli spazi autogestiti alla festa de «l’Unità» della Rotonda d’Ardenza del 2001 e del 2002. Mercoledì scorso erano già più di 3.400 le persone che avevano prenotato, mentre giovedì tutti i posti delle 15 repliche de «Il Baratro» erano già esauriti: per i «Cuculi», un autentico trionfo. Negli ultimi giorni il numero medio delle telefonate per le prenotazioni è stato di 20 all’ora, più 80 e-mail al giorno ricevute sul sito ufficiale «www.nidodelcuculo.it» (un sito da 1.200 contatti giornalieri e da 170.000 visite totali). Le città che seguono di più il «Nido» sono Firenze, Empoli e, purtroppo, Pisa e provincia; non è escluso, infatti, che i pisani godano ad essere «meleggiati». Un dato curioso? Tra coloro che mercoledì avevano prenotato, nemmeno 1.000 su 3.400 venivano da Livorno. Circa 50, invece, sono state le prenotazioni da fuori Toscana, nella fattispecie da Milano, Roma, Trento, Mantova, Brescia, Vicenza e Casalecchio sul Reno.

Migone: «Ora devono calibrare il tiro» 

Livorno. Così da giovedì scorso i «Cuculi» hanno finalmente ricominciato a deporre le loro uova al vetriolo, anche stavolta traboccanti di riflessioni agrodolci e umorismo tagliente. E migliaia di cacciatori si sono avventurati nel loro selvaggio mondo di celluloide tagliuzzato con affabile sadismo. Ma senza porto d’armi, soltanto per riportare a casa un carniere carico di risate.
Tra loro, direttamente dallo «Zelig» televisivo, il comico di casa nostra Paolo Migone. «Circa tre anni fa - è lui a parlare - vidi al volo un loro «corto» alla festa de «l’Unità». Ero curioso e, quindi, eccomi qui. Il «Nido» ha canalizzato molto bene il sarcasmo livornese, che è forte e cattivo. E tutta questa gente è davvero una bella risposta: queste serate saranno di certo una palestra coi fiocchi per loro. Adesso devono però lavorare sulle idee, perché il nostro sarcasmo è vero che è greve, ma spesso anche molto leggero e intelligente. In sostanza, piano piano devono saper calibrare il tiro».
In generale, comunque, il consenso da parte degli spettatori è stato ampio. E la maggior parte di loro ha ammesso d’aver saputo dei doppiaggi in «livornesaccio» tramite Internet. Per Marco Belati, trentottenne romano, lo spettacolo si è rivelato «molto divertente», mentre per Romilda Gabbani, pontederese di 27 anni, si è trattato davvero «di un’idea simpatica». Anche Gabriele Paoli, teen-ager di Camaiore, ha confessato d’aver conosciuto «Io? Doppio!» grazie a Internet. E di sperare che i «Cuculi» continuino per la loro strada, perché «sono proprio forti, fanno morire dal ridere».

Virzì: questa città mi interessa molto, ne riparlerò

Livorno. Alla festa nazionale tematica dell’Unità della Rotonda d’Ardenza anche registi di fama, comici eclettici e trasformisti di grido. Dove? Ma presso lo stand del «Nido del Cuculo» (al secolo Paolo Ruffini, Alessio Porquier, Lorenzo Ceccarini ed Enrico Battocchi), dove - come attratti dalla calamita di questi surfisti dell’onda cinematografica - personalità del cinema e della televisione volentieri improvvisano dei faccia a faccia spumeggianti di complicità e ironia. Come è accaduto domenica sera, a metà della proiezione del film «Ovosodo», tra Paolo Ruffini, presidente dell’associazione cinematografica, e il regista dai natali labronici Paolo Virzì.
Il regista ha parlato a ruota libera, con tranquillità come se fosse di nuovo tra vecchi amici, chiaramente incalzato dalle domande dell’estroso Ruffini: sotto i riflettori «Ovosodo», passato di recente in televisione, e «My name is Tanino», ultima fatica dell’autore. Un incontro che ha divertito e, allo stesso tempo, spruzzato qualche goccia d’amarezza tra i cinefili presenti.
«Mi ha colpito l’intervento - ecco l’esordio di Paolo Virzì - del senatore di An con incarichi istituzionali Buonatesta, che ha presentato un esposto alla Rai per la mancata censura di «Ovosodo», poiché in un momento del film si poteva istigare i genitori all’infanticidio: cosa che, francamente, mi ha fatto sorridere. Comunque tutte le volte che il film viene passato in Tv, nonostante la sua storia sia d’ambienti livornesi e quindi estranea all’iconografia classica del cinema (che è in prevalenza romana), riscuote notevoli ascolti e ciò è chiaro che mi inorgoglisce. Ovviamente a Livorno, città dal desiderio d’identità fortissimo, credo che questa pellicola sia stata vissuta nell’intimo e sia riuscita a dare rilievo proprio a questa identità».
Ma a questo punto Ruffini ha versato del pepe sull’incontro, ventilando il fatto che alcuni abitanti del quartiere La Guglia, dove avvenne gran parte delle riprese, non si sono riconosciuti granché nel film. Sibillina la replica del regista: «Forse il profilo romantico della città disegnato in «Ovosodo» può darsi che non coincida con l’immagine che molti possono avere di Livorno: ma infatti la storia del film è romanzata e si fonde in un gioco di contrasti che non pretende d’essere vero».
E a proposito di «My name is Tanino»? «Il mio nuovo film - ha spiegato Virzì - ha avuto una lavorazione rocambolesca, quasi quanto la storia che racconta. Pellicola tra l’altro piuttosto costosa perché girata in parte in America e la cui gestazione ha coinciso sfortunatamente con il crack finanziario del produttore, ovvero di Vittorio Cecchi Gori. Proprio per questo motivo il film, quest’estate, non sarà presente a nessun festival. Semplicemente  perché non è stato tecnicamente finalizzato, cioè non ne esiste sul mercato copia alcuna. Salvare il film, con ogni probabilità, sarà compito della «Medusa», l’altra potente label di distribuzione cinematografica». E ha aggiunto; «Comunque, questa esperienza oltreoceano non deve essere letta come una fuga da Livorno: questa città mi interessa ancora molto e conto in futuro di svilupparci altri progetti, film compresi».
Ultimo oggetto della contesa: il cinema e il nuovo governo. «La nuova situazione politica - questo il commento del regista - s’è fatta sentire anche in campo cinematografico: secondo me, d’ora in poi sarà molto più arduo per i nuovi autori emergere. Ho l’impressione che si stia riaprendo la strada verso una forma di nepotismo che, per fortuna, eravamo riusciti a superare. E questo è assolutamente provato da tutta una serie di mosse politico-cinematografiche orchestrate a danno della trasparenza. Adesso è probabile che, per ragioni industriali e soprattutto di monopolio, assisteremo ad un nuovo abbassamento della qualità del cinema italiano; e forse sarà di nuovo crisi come fu quella degli anni ‘80, quando «Pierino» e «Vacanze di Natale» impazzavano».

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