«Ma così non viviamo più»

Livorno. Di atto vandalico si è trattato, davvero difficile dubitarne. Nel mirino sono finiti una schiera di mezzi a due ruote, tutti andati in fumo. Scintille che hanno sprigionato fiamme dolose, illuminando alle prime luci dell’alba la centralissima via Poggiali, vale a dire quella via breve che lambisce piazza Magenta e cade a perpendicolo su corso Amedeo. Ingenti i danni: oltre ai ciclomotori, circa 6mila euro al centro estetico «Le dune» (da distribuire tra tende bruciacchiate, vetri scoppiati e una saracinesca deformata per il calore), un fuoristrada Mitsubishi «Pajero» con il muso rovinato e una parete di un edificio annerita. Un rogo gratuito che ha ribadito come degrado e teppismo siano divenuti il tallone d’Achille di questa frazione di centro oramai «bruciata», e non solo per via dell’agire spregiudicato dei piromani.
«Di giorno - dice Susanna Lucarelli, titolare del centro estetico «Le dune» e moglie di Cristiano Lucarelli, beniamino dei tifosi amaranto - in questa zona non notiamo cattive frequentazioni. Ma di notte la cosa cambia. Comunque, sino ad ora, quando la mattina apriamo, non abbiamo mai trovato spregi di sorta, per cui mi auguro che sia stata solo una bravata che è scappata di mano; dopotutto siamo a Livorno, una città piuttosto calma. Tuttavia, per prevenire queste cose, ci vorrebbe più sorveglianza. Ma qui i poliziotti di quartiere non si vedono: al mattino ci sono soltanto i vigili urbani a fare le contravvenzioni». Dello stesso parere Dunia Tolomei Sumberaz del negozio d’abbigliamento per l’infanzia «Paradiso dei bambini»; «Prima di Natale, è passato da queste parti un giovanissimo carabiniere: da quel momento di ronda di quartiere nemmeno l’ombra. Questo posto è diventato uno schifo, uno scempio, ultimamente frequentato anche di giorno da brutti ceffi, forse stranieri. Siamo stanchi di pagare le tasse, metterci nelle mani dell’amministrazione comunale e poi subire tutto questo». Rossano Fantozzi del bar «Magenta» osserva inoltre che «qualche anno fa c’era davvero un brutto giro, ma col tempo le cose erano migliorate. E proprio ora che pareva tutto tranquillo, ecco che è accaduto questo. Che cosa ci vorrebbe? Più vigilanza, assolutamente».
Tra gli habitué più giovani di piazza Magenta, Luigi Curci, per il quale per far fronte al vandalismo «bisognerebbe andare a parlare col sindaco allo scopo di farsi garantire maggior tutela». Mentre secondo Serena Fina «di un’azione del genere non escluderei la premeditazione, poiché i giovani d’oggi sanno intraprendere le proprie strade, sono molto determinati».
In conclusione, Carla Pieralli, abitante della zona: «Di notte, in piazza, succede di tutto: gruppi di persone, immigrati ma anche livornesi, che si picchiano, cani che si azzuffano e via dicendo. E noi abbiamo paura perché è a rischio anche la nostra incolumità: tempo fa, infatti, mi è arrivato addosso un sasso da un gruppetto di giovani, di sicuro livornesi. Mio marito, quella volta, chiamò i carabinieri, ma non venne nessuno. Sorveglianza notturna: ecco che cosa ci vuole».
Insomma, un coro unanime. Ora c’è da augurarsi che l’episodio non venga minimizzato e che qualcuno si faccia carico, in maniera seria, del problema. La gente intervistata è stata chiara; chiede maggiori controlli e sicurezza. E sorveglianza nelle ore notturne.

Marito, moglie e quattro figli: il dolore in una roulotte

Livorno. In piazza Luigi Orlando, nel piazzale antistante il Cantiere Navale «F.lli Orlando», a poche decine di metri dalle abitazioni della zona, una famiglia intera vive in precarie condizioni d’igiene e sicurezza in una roulotte striminzita: marito e moglie sulla sessantina e quattro figli costretti da circostanze avverse a coltivare un’esistenza fuori dal tempo. E come se non bastasse additati dall’intolleranza.
«Otto anni fa mia moglie decise di lasciarmi - racconta Sergio Mangani, il marito - ed io rimasi a vivere da solo in un appartamento della ex «Casa Firenze» di Antignano. Lei e i ragazzi si stabilirono in questa roulotte (tra l’altro regolarmente acquistata grazie ai pochi risparmi) e da allora non si sono più mossi da qui. Io, invece, abitando solo, talvolta ospitavo qualche barbone, cosa che non sembrava piacere al vicinato e che spesso sfociava in discussioni parecchio accese. Durante la degenza all’ospedale per polmonite, mi fu rubato tutto: mobili, televisore e persino il cane. Allora decisi di trasferirmi qua, insieme a mia moglie. Ma non sempre passo la notte in roulotte: infatti, quando il clima lo permette, vado a dormire sul viale Italia, sotto le palme. Sono invalido civile e riscuoto una pensione di poco più d’un milione al mese. In aggiunta sono piuttosto anziano e soggetto a convulsioni; ditemi voi se si può vivere in questa maniera».
«Anche io - è la volta di Giovanna Del Ry, la moglie - ho una piccolissima pensione d’invalidità (solo quattrocentomila lire!) perché soffro d’epilessia. Ma il mio dispiacere più grande è vedere i miei figli trascorrere la loro giovinezza nello stretto, dormire per terra tormentati dalle mosche in una roulotte nella quale d’inverno fa molto freddo e d’estate si muore dal caldo, proprio accanto a clandestini turchi e marocchini tossicodipendenti che spacciano droga per sopravvivere. Non possiamo andare avanti così ancora per molto. Abbiamo le mani legate: non si può far domanda per una casa popolare perché non abbiamo la residenza. E non possiamo permetterci neanche di trasferirci in un campeggio a pagamento. I miei bambini fanno qualche lavoretto saltuario; meglio di niente, ma non basta. Sono ragazzi seri: ci vorrebbe un miracolo, cioè che qualche brava persona li assumesse in pianta stabile. Oltre che per noi una soddisfazione immensa, ci darebbe una mano a ridurre i nostri problemi».
«Addirittura - conclude Mangani - alcuni pubblici ufficiali si sono lamentati del rottame di «Ape 50» che si trova a fianco della roulotte. Ma non è nostro! Secondo loro dovrei portarlo altrove, magari in una autodemolizione: e come faccio?»

L’acqua benedetta "divide" i fedeli

Livorno. Chiesa e discount shakerati ad arte con tanto di benedizione, come diavolo e acquasanta. E, inevitabilmente, il fuoco mefistofelico della polemica ha di nuovo illuminato il cammino di credenti e non. Una diatriba nata dall’impossibilità d’interrompere una delle tradizioni oramai secolari del Santuario di Montenero: quella legata alla «vendita» - oppure «offerta», che dir si voglia - d’acqua e olio benedetti ai fedeli. «Operazione commerciale» a rischio tracollo per l’intervento dell’Usl, il cui veto, un anno fa, negò per motivi igienici la vendita ai devoti d’acqua «corrente» consacrata. Costringendo pertanto i religiosi ad acquistare stock di bottigliette d’acqua «Lora» Recoaro e olio di marca ed applicare su ognuna di esse un’etichetta adesiva semitrasparente. Sopra è stampata l’effigie della Madonna di Montenero. Poi tutto viene benedetto 1000 pezzi per volta. Gli articoli vengono distribuiti, ancora sigillati, in cambio d’una «offerta». Secondo l’opinione di alcuni, un gesto tra il sacro ed il profano, ben lontano dallo spirito religioso. Secondo i devoti, invece, una giusta raccolta di fondi per sostenere le opere di carità del santuario.
«Condivido che si prosegua la tradizione dell’acquasanta - afferma Bruno Lo Porto, animatore del Comitato «Casi socialmente rilevanti», che è stato tra i primi a denunciare la vicenda, ma avrei un semplice calcolo da fare: se si «vende» una bottiglietta da 25 centilitri a 1 euro, ciò vuol dire che 1 litro d’acqua, ovvero 4 pezzi, costa 4 euro. In altri termini, quasi 8.000 vecchie lire al litro! Fare un’offerta è una cosa; ma un’offerta con indicazione obbligata la dice lunga su quella che io considero soltanto un’operazione commerciale. Spero quindi nell’intervento delle autorità competenti per verificare se la cosa rientri nella legalità. Poiché vendere 1 litro d’acqua a 8.000 lire è assolutamente illegale!».
«Gli introiti - osserva invece Mario Canessa - che i monaci ricavano da queste offerte vengono utilizzati per il mantenimento di questo complesso, che è davvero imponente. E una parte di essi va anche in beneficenza, a sovvenzionare le attività di volontariato organizzate dal Santuario. Per quanto riguarda il valore spirituale dell’acqua benedetta... c’è chi sceglie di crederci e chi no, dipende tutto dalla fede». Critica Fortunata Sanfilippo: «È quanto meno opportuno che si vada a fondo nella questione per accertare che il denaro sia devoluto in opere di beneficenza e che queste iniziative non siano esclusivamente fonti di guadagno».
«A mio parere - dice Roberto Motroni - l’acqua minerale va smerciata nei negozi o nei supermarket, e non in chiesa. La chiesa dovrebbe vendere fede, ricordi sacri e tutto quello di cui hanno bisogno i credenti». Tocca poi a Dina Di Franco: «Non comprerei mai una di quelle bottiglie perché, quando ho seri problemi da affrontare, mi rivolgo direttamente all’alto, senza intermediari. Questo è il mio modo d’intendere la religione».
«Noi commercianti - conclude Marzio Conti, presidente della «Pro Loco» di Montenero e titolare del ristorante omonimo - stiamo iniziando a preoccuparci. Soprattutto a causa di chi sta spingendo il «business religioso» decisamente oltre; un atteggiamento che rischia di mettere in crisi l’intera piazza. Quindi, mi sento in dovere di lanciare un SOS ai nostri amministratori, affinché ci difendano dallo strapotere del Santuario. Perché credo che si dovrebbe rimettere in discussione qualche autorizzazione di troppo».

In quattromila per il Papa nero

Livorno. L’Africa è un continente troppo grande ed affascinante per poter essere descritto così, su due piedi. È talmente ricca e variopinta che si arriva alla conclusione che è soltanto per semplificare che la chiamano Africa. Vivere i suoi colori, i suoi odori, le sue visioni, la sua fede, anche solo per qualche ora, è senza dubbio un’esperienza ebbra di sensazioni. Sensazioni che ieri non sono affatto mancate al palasport di via Allende, quando Cheikh Mourtada M’backe, leader spirituale del movimento religioso «mouridista» del Senegal, ha accolto quasi 4mila immigrati - provenienti da tutta la Toscana, dall’Emilia Romagna, dal Lazio, dal Piemonte e dalla Liguria - in un megaraduno organizzato con la collaborazione dell’«Arci» labronico e dell’assessorato alle politiche sociali.
«La religione islamica - come affermato da Diop Mbaye, presidente della «Comunità senegalese» di Livorno - vuol dire, prima di tutto, pace e convivenza civile. Perché Dio è unico per tutti e questo ci fa capire che, affinché ci sia pace duratura in tutto il mondo, dobbiamo restare tutti quanti uniti di fronte alla violenza».
Ieri sera, dunque, non si sono visti confini né tantomeno barriere dentro la macrobolla umida e calda del palasport; eravamo ai tropici, in Africa, in Senegal. Migliaia di adepti, rigorosamente in «kaftan» ed inginocchiati sul parquet ricoperto di tappeti, hanno salutato con entusiasmo il loro capo spirituale. Poi, mentre bellissimi bambini dalla pelle d’ebano si facevano perplessi dall’atmosfera sacrale che trasudava da tutti i pori, il palazzetto si è ammutolito, sprofondando nel silenzio assordante del messaggio di pace, rispetto e fratellanza del portavoce di Cheikh Mourtada M’backe.
Marco Solimano, presidente dell’«Arci» di Livorno, ha sottolineato che «questo evento è stato straordinario sia dal punto di vista religioso, sia in rapporto alla nostra città. La testimonianza di civiltà, compostezza e passione che hanno dato questi 4mila senegalesi deve essere interpretata da noi come momento di concordia, pace e solidarietà tra popoli che, sebbene pratichino culture e religioni diverse, si possono benissimo incontrare su percorsi di questo genere: percorsi che fanno onore alla stessa città di Livorno». «Questi ragazzi - ha aggiunto Alfio Baldi, assessore alle politiche sociali - si stanno muovendo con grande correttezza ed organizzazione. A loro va tutta la nostra gratitudine perché, così facendo, ci stanno trasferendo emozioni ed insegnamenti».
È fuori discussione che l’ottantatreenne Cheikh Mourtada M’backe, guida spirituale dei «mouride» (confraternita musulmana fondata nel 1886 dal padre, Cheikh Amadou Bamba, oggi divenuto santo, e tuttora capeggiata «ufficialmente» dal fratello, Cheikh Saliou M’backe), abbia carisma da vendere: in ogni dove, puntualmente, accorrono folle di proseliti per incontrarlo. Egli si rivela pertanto una guida spirituale a 360°, che porta per il mondo un’ambasciata d’emozioni per il lontano Senegal, mettendo sugli scudi l’anima autentica dell’Islam, ovvero la moderazione. Principio fondamentale sul quale è basata la dottrina della sua confraternita e che, perciò, fa sì che i «mouride» siano gli unici musulmani ad essere, a tutt’oggi, ricevuti negli Stati Uniti con tutti gli onori del caso. Tirando le somme, quindi, i «mouride», ovunque vadano, si presentano quali ambasciatori di pace, rispetto e tolleranza. E una città multietnica qual è Livorno, che mette all’indice ogni forma di razzismo, non poteva non accoglierli nel migliore dei modi.
Diop Mbaye, inoltre, su indicazione del centro d’aggregazione giovanile «Todo Modo», ha contattato Claudio Marmugi ed Efraim Pepe del «Piccolo Cinema Indipendente» per documentare la venuta del «Papa nero» a Livorno. «Non potevamo - ha commentato Marmugi - lasciarci sfuggire questa occasione. Così abbiamo accettato e ripreso tutto quello che c’era da riprendere durante l’evento. Ne tireremo fuori un lavoro in stile documentaristico per la «Comunità senegalese». Ma non solo. Alcune inquadrature, infatti, sono state concepite per un ulteriore lavoro che darà risalto al rapporto tra la città e la comunità senegalese».

Malato, vive in roulotte

Livorno. La roulotte con la scritta sulla fiancata la possono vedere tutti quelli che passano dalla Variante, in via di Levante. «Tuttofare» c’è scritto sulla fiancata, insieme ad un numero di cellulare. Il modo di farsi pubblicità è nuovo, tuttavia dietro quella scritta non c’è una ditta ma soltanto un giovane disoccupato, rimasto senza casa. Che chiede lavoro e, appunto, una casa. Cioè l’essenziale. Parliamo di Daniele Rondelli, livornese di 25 anni, costretto a vivere in precarie condizioni d’igiene e sicurezza all’interno di tre roulotte (due delle quali regalategli dal Circo «Orfei» e una dalla vicina autodemolizione) totalmente prive d’acqua, elettricità e gas.
«Dopo aver vissuto come un barbone per quattro anni in piazza San Marco - racconta Rondelli - mi sono sistemato qui. Da due anni a questa parte per le autorità questa è la mia casa, anche se in realtà la mia residenza è ancora in via Verdi 76, domicilio dal quale sono stato buttato fuori tempo fa. Qui dove vivo adesso, accanto alla discarica, paradossalmente ho subito anche diversi furti. Sono disoccupato, passo le mie giornate in una roulotte maleodorante con il pavimento marcio, con diecimila lire compro colazione, pranzo e cena: ma a chi potrebbe mai venire in mente di derubare uno come me?»
Inutile dirlo, la storia di Daniele Rondelli è alquanto drammatica. I peccati di gioventù, che lo hanno costretto a pagare i suoi debiti con la legge, gli hanno segnato la vita. Tra le precedenti esperienze professionali, afferma di aver lavorato presso la «Ugolini Arredamenti Srl» di Firenze grazie alla qualifica di falegname. E ha fatto pure il mimo in via Grande di fronte alla «Standa». Al momento vive di lavori saltuari e del moderato aiuto fornitogli da sua madre, da alcuni commercianti della zona e dai contadini che hanno i campi vicini al terreno dove abita (se di abitazione si può parlare).
«Sono diabetico - prosegue - a tre volte al giorno devo iniettarmi l’insulina; ma senza elettricità e, di conseguenza, un frigorifero nel quale porre le fiale, l’insulina tende a degenerare. In passato sono caduto in coma ipoglicemico e ce l’ho fatta per il rotto della cuffia. Ho presentato domanda per la pensione d’invalidità, ma è stata respinta poiché non raggiungo il punteggio necessario. E non ho diritto neppure a una casa popolare perché sono senza reddito». «Sono disposto - conclude Daniele - a fare qualsiasi tipo di lavoro, dal falegname all’imbianchino e al manovale, e inoltre sono disponibile anche per eseguire piccoli lavori domestici come elettricista in virtù delle nozioni in materia che mi sono state insegnate da mio padre. Ho messo la testa a posto e con la legge non ho più problemi da un sacco di tempo: spero con tutto il cuore che qualcuno ascolti il mio appello affinché possa lavorare regolarmente, farmi una casa e ricomporre la mia famiglia. Il mio interesse primario è assolutamente quello di fare bella figura, e quindi, assicuro sin da adesso che nessuno se ne pentirà. Ho tutta l’intenzione di vivere un’esistenza più dignitosa e rispettabile: provare per credere».

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