Culi sul Boccale

Che caldo pecorino. Che schifo d'afa... ma che afa... ‘afanculo! Basta, vado al mare. Capelli al vento, sul motorino arriva il refrigerio. Senza bonjo e damigiana, niente Sonnino: non si può non adeguarsi agli ambienti e perdersi in saluti oppiacei privi di spirito d'aggregazione. Meglio optare per il Boccale. Qui il rango è indiscutibilmente più elevato, tanto che mi sento in dovere di scappellarmi, ma che dico, di spellarmi il pisello al cospetto di quelli che invece di trombare magari si mangiano un Magnum, oppure si ingelatinano i capelli con Cielo Alto (che, date le circostanze, dovrebbe piuttosto chiamarsi "Ce l'ho basso"). Ma se fossero nespole?
Comunque ormai sono nella rete. Conversando con alcuni conoscenti commetto l'errore d'essere "profondo". Tutti mi guardano come se fossi un indigeno con tanto d'ossicino al naso. Una piacente betoniera con gli occhiali firmati Armani, di quelle che per farsi trombare te la devono tirare dietro mentre cerchi protezione da un esorcista, mi guarda scandalizzata.
Di lei noto subito il gozzo (ma certo, come quello del Venezia!), che sembra fibrillare di vergogna a causa della bestemmia da me pronunciata. Due tarzanelli col fisico tirato avanti a panettone e mortadella e il ridicolo culo basso (ci fo un passo), udita l'eresia, mi scrutano minacciosi, con sguardi da Inquisizione. In difficoltà, glassato, stremato come se mi avessero sbarbagiannato il deretano, i rimasugli della pastasciuttina sul gabbiano che ho ingurgitato a pranzo che richiamano vomitevoli reminiscenze, sto per soccombere, quando una gorgogliante flatulenza di proporzioni ciclopiche irrompe dal mio spiritoso intestino, salvandomi in extremis...
Passata l'inquietudine, soddisfatto e in gran forma, sentenzio prolisso: "Ogni cosa al suo posto: un po' in bocca e un po' in culo". Rimangono tutti inorriditi. L'aria diviene irrespirabile. Un bambino mi chiede se è vero che è arrivato Godzilla: è il panico. Nel bailamme generale mi rivesto serafico. Quasi quasi vado al Sonnino: lì, con i miei amici, dopo aver tracannato una Cocacola, probabilmente ci scappa un'agghiacciante quantomai goliardica gara di ruti preistorici, alla faccia della Protezione Civile.
A cavallo del motorino, per dirla con Daniele Cerrai, il bimbo della Daniela, "riscopro il piacere dell'asciugamano bagnato sotto il culo, da vero livornese di scoglio". Peccato che stasera non trombo: la bambola è forata (l'ultima volta ha esagerato, brutta scrofolona!).
Morale: quando ti stanno inculando, non dimenarti più di tanto... faresti il loro gioco.

(Settembre, 1997)

Operazione “Trota d’Oro”

Che tempi, quelli d'inizio secolo. In principio era il Senatore a vita Giulio Andreotti: novantatré anni (tutti in un gobbo solo), nel maggio del 2012 era stato ricoverato al Policlinico "Gemelli" per un malore. E, d'improvviso, qualcuno aveva iniziato a credere ai miracoli. Vale a dire che la revisione della spesa pubblica funzionasse sul serio.
Mala tempora currunt! La crescita economica dello stivale era soltanto risucchio, scoppio e masticamento di chewing gum. E ciò benché l'adorabile Premier Mario Montenstein, capitano di lungo corso chiamato per levare i testicoli dell'Italia dalla morsa, premesse sull'acceleratore (delle auto blu). Eh, sì: il Premier manteneva la rotta, era un duro. In molti si lagnavano di Montenstein. Alcuni dubitavano senza cognizione di causa. Altri miagolavano nel buio. Altri ancora squittivano. Dunque, si sappia: se non ci fosse stato lui... ce ne sarebbe stato un altro. A volte converrebbe desistere da simili elucubrazioni.
Nel corso della crisi economica dei primi decenni del XXI secolo – che aveva rimarcato l'esiguità dei salari a fronte di una tassazione da cappio al collo, comportato licenziamenti a nastro e marachelle ai danni della società incaricata della riscossione nazionale dei tributi, tagliato a lasagne le famiglie e incrinato la fiducia nella politica tutta, finanche i consensi del Governo – un fattaccio su tutti aveva dominato la scena: l'affaire Lega Nord.
Infatti, nell'aprile del 2012, era scoppiato lo scandalo: una serie di accertamenti sui conti del Carroccio da parte di diverse procure aveva evidenziato che qualche palla poteva essere in fuorigioco. Tra le altre cose, era emerso che il tesoriere del partito, Francesco Belsito, pareva avesse attinto del denaro dalle casse della Lega Nord per acquistare fondi in Tanzania e per investire in lingotti d'oro e diamanti (inoltre, sembrava che l'oro e i diamanti fossero stati divisi fra lo stesso Belsito e altri esponenti del movimento). «Ho agito nell'interesse della Lega», disse ai magistrati l'indagato, preoccupato ma sereno. All'epoca subito espulso dal partito, l'ex tesoriere aveva sostenuto di essere sempre stato un buon amministratore e di aver eseguito tutte quelle operazioni per conto del movimento.
L'attacco mediatico non aveva avuto precedenti. Il Carroccio era stato alluvionato da una grandinata di improperi e pernacchie. Innocentisti e colpevolisti se le erano date di santa ragione. Ma la presunzione d'innocenza è una delle più grandi conquiste di ogni civiltà giuridica: difatti il presunto faccendiere avrebbe invece meritato la medaglia d'oro al valor civile. Per quale motivo? Perché nessuno parlò mai dell'Operazione "Trota d'Oro". E fu come un esorcismo poiché, se nessuno ne aveva parlato, risultò al mondo che quell'operazione non era mai stata concepita né messa in atto. Niente di più falso, ahinoi.
Giornali ed emittenti sempre più uguali e omologati al pensiero unico dominante, quando non incentrati sul rinforzare le mura del rancore e dell'amarezza, avevano proposto servizi giornalistici su temi di bruciante attualità, quali George Clooney con i suoi irrinunciabili "wow!", il clamoroso flirt di Belen Rodriguez con Homer Simpson, i rapporti burrascosi tra l'ex Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione Renato Brunetta e i suoi vicini di nanerottolo, il figlio illegittimo di un sacerdote di Milwaukee che aveva preso tutto da suo padre (anche la sifilide) e l'agghiacciante scoreggia di uno yak di montagna scambiata da un marine di stanza in Afghanistan per fuoco amico: però mai avevano fiatato circa l'Operazione "Trota d'Oro". Sarebbe stato doveroso non fare alcuna omissione in seno a uno scandalo di siffatta delicatezza e di così vasto interesse come l'affaire Lega Nord: tuttavia l'Operazione "Trota d'Oro" restò ignota al volgo. Entità stratificate, ma invisibili, irraggiungibili, la seppellirono in un file criptato di un PC appartenente al burattinaio supremo, un baffuto agente dell'A.I.S.I. (l'ex S.I.S.De., mica la Loggia del Leopardo, poffarbacco!).
L'idea dell'Operazione "Trota d'Oro" era nata dalle ceneri della "Giornata della Fede" del 18 dicembre del 1935, iniziativa interna alla campagna "Oro alla Patria", organizzata dal regime mussoliniano e finalizzata a promuovere l'autarchia economica dell'Italia in modo da consentire al paese, con la collaborazione comune, di superare le schiaccianti difficoltà di quei tempi. Quel giorno migliaia di cittadini avevano consegnato volontariamente l'anello matrimoniale alla nazione, ricevendone in cambio uno di ferro: in ventiquattro ore vennero raccolte milioni di fedi nuziali, ossia decine e decine di tonnellate d'oro e argento.
Questa l'idea: replicare l'iniziativa del 1935. Nella sua padana ingenuità, ad averla avuta era stato un tizio indurito, amareggiato, la cui unica consolazione era l'odio, un tale che trascinava da anni le stanche membra nonostante i postumi di un grave mancamento. Le ragioni di una simile idea? Perché voleva fare del Carroccio il primo partito della penisola e di se stesso il glorioso imperatore d'Italia. Il tizio amareggiato era stato la mente. Francesco Belsito, il braccio. Che strana coppia.
Erano questi, in sintesi, gli obbiettivi dell'Operazione "Trota d'Oro": per svincolare l'Italia dalle tendenze internazionali, si sarebbe dovuta costituire, in virtù della donazione di milioni di anelli matrimoniali da parte dei cittadini della Padania e poi dell'intera nazione, una titanica riserva aurea, un immenso sovrappiù di oro rispetto alla riserva monetaria nazionale già esistente. In seguito, col ricavato della vendita di questo surplus aureo ai paesi esteri (tipo il Burkina Faso o Paperopoli) sarebbe stato aggredito il debito pubblico e trovato anzitempo il bandolo della mattanza. Farneticazioni? Forse. O forse no. Comunque, ecco a che cosa erano serviti i lingotti d'oro dello scandalo: per l'avvio dell'operazione. Erano solo fedi nuziali fuse, quei lingotti. Beh, ad onor del vero, nell'affaire Lega Nord si era parlato pure di diamanti e di fondi in Tanzania. Ma non bisogna sempre spaccare il capello in quattro. Talvolta si deve avere fede. Già, fede. Come quella del 18 dicembre del 1935.
Unico ostacolo all'Operazione "Trota d'Oro": il baffuto 007 dell'A.I.S.I. Quel diavoletto birichino, oramai raggiunte la saggezza, la maturità e l'incantevole limpidezza del genio strategico, per nulla intenzionato a lasciare le redini dell'Italia alla precitata strana coppia, ululò alla propria legione: «Al mio via, scatenate l'Interno!». E fece tutti flambè. Fece capire chi davvero dettava le regole, a chi si dovevano sempre chiedere le chiavi del cesso. Strapazzò di coccole il tizio indurito, Belsito e altri membri del Carroccio. Insomma, l'Operazione "Trota d'Oro" venne insabbiata. I media la ignorarono. E nessuno ne seppe niente. Perché i servizi di intelligence, quando vanno a braccetto con la stampa, talora servono più che altro per tutelare il potere dei Palazzi o complottare ai danni della sovranità popolare, non tanto per occuparsi della sicurezza o fare prevenzione.
«È stata una gran bella esperienza, questa. Sono contento di tutto, della mia vita e di ciò che ho realizzato», avrebbe confidato, alla fine della giostra, il baffuto agente segreto ad alcuni suoi fedeli pretoriani. Aggiungendo, mefistofelico: «E adesso, per favore, casta».

(Giugno, 2012)

A bombazza!

Che tempi, quelli d’inizio secolo. In principio era Lui, Silvio Berlusconi, quello del Primo Avvento, che, a fasi alterne dal 1994 al 2011, fece il Premier a tempo perso e il macho a tempo ritrovato. Laureato in legge in fila per tre col resto di due, per anni mantenne l’Italia della crisi in fase istruttoria, giammai facendola approdare a quella dibattimentale. Manager rampante, con Lui l'esecutivo e il capitale privatizzarono anche il soprannaturale, trasformando la penisola in una SpA gigantesca: SpA, cioè “Soltanto Per Arcore”. Fervente cattolico, la tentazione della rettitudine fu per Lui fonte di vizio: perciò il buon Dio gli impose per tutta la vita di resistere a tale tentazione. Eccellente statista, basò sempre le proprie obiezioni solo sul presupposto che gli altri avessero torto e dei problemi e delle tragedie ebbe ogni volta una visuale a volo d’uccello. Insomma, in bilico tra altera ritrosia e paurosa castità, un sultano coscienzioso, che mai venne colto a sgassare dalle terga senza cognizione di causa.
Siccome fin dall’alba dei tempi l’aveva pensata esattamente come se stesso, pertanto ritenendo Lui che la vorace credulità del popolo fosse il principale strumento della macchinazione governativa, nell’ottobre del 2011, considerato il rigor mortis economico dello stivale, rilasciò una dichiarazione credibilissima che colpì persino i Teletubbies, le alpache del Perù e i bradipi di Castellammare di Stabia: «Stiamo lavorando su riforme decisive per il presente e per il futuro del Paese». Verosimilmente, stava pensando ad una nuova pillola contro il deficit erettile. Fu davvero troppo. Un mesetto dopo il principe ridanciano rassegnò le dimissioni da Presidente del Consiglio dei Ministri: veniva, prima d’ogni altra cosa, la sua rata del mutuo.
A ruota si manifestò l’Altro, Mario Monti, quello del Secondo Avvento. L’Altro, il sobrio gran visir dell’economia, agnello per natura e lupo per professione, che ad ogni inedita catastrofe riusciva comunque a mantenersi anormalmente normale. Campione di robotica temperanza, ad ogni piè sospinto rotto alle fatiche e alle astuzie dell’UE, soltanto col controtorpore ieratico seppe rispondere alla messinscena fantozziana del Primo Avvento. Nell’Italia di quei tempi, il Governo proponeva e il Parlamento decideva: senz’altro decideva dopo la campagna acquisti. Difatti, il 16 dicembre del 2011, il decreto salva–Belpaese del misurato Primo Ministro venne approvato dalla Camera dei Deputati e, di lì a poco, a seguito dell’esame del Senato, avrebbe incassato il via libera definitivo. Ah beh, sì beh: ravvisare “giustizia sociale” in quella manovra, in altre parole l’impegno nel contrastare abusi, sperequazioni e “corruzioni istituzionalizzate”, era come liberare per sempre il circondario napoletano dall’immondizia. Vale a dire: un sogno nel cassonetto.
Eppure, qualche settimana prima, a Palazzo Giustiniani, in conferenza stampa, per una volta talmente eccitato che si era messo la lingua in bocca da solo, l’Altro si era così espresso: «Non ho mai detto “lacrime e sangue”, ma sacrifici forse sì». Sacrifici “forse sì”?! Sveglia! Giù dalle brande! Altro che demagogia e populismo: contro il mondo del lavoro e le politiche del welfare, fu un goal a porta vuota. Che ne era stato delle misure in grado di colpire con massiccia efficacia l’evasione fiscale e i grandi patrimoni? E di una riforma della previdenza che non fosse scaricata soltanto sulle spalle di lavoratori e pensionati? E della concreta e sostenibile riduzione dei costi della politica? E di una riforma fiscale che alleggerisse la tassazione sui redditi da lavoro dipendente e da pensione? Ah beh, sì beh: niente di draconiano sotto il sole, se non nei confronti dei soliti noti. Un’automobile aveva attraversato la strada sulle strisce pedonali ed era stata investita da un cinghiale: poiché ci sono sempre alti accademici disposti a preservare il mondo dagli orrori del libero pensiero.
Il Primo e il Secondo Avvento avevano avuto diversi punti di contatto. Ma l’idea fissa per eccellenza – da Lui fatta tradurre in termini tecnici, dall’Altro fatta, se non altro, prospettare – era stata quella di voler riformare ad ogni costo l’Articolo 18, in particolare la norma sui licenziamenti, riscrivendo le discipline che delimitavano l’area del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, ovviamente a discapito del lavoratore. Riformare “ad ogni costo”: anche a costo di sacrificare la cosiddetta “pace sociale”, peraltro già in parte compromessa per via dell’incresciosa cassa integrazione dell’economia del Bengodi.
Fine ottobre 2011: «Basta creare tensioni sulla riforma del lavoro che può portare a nuove stagioni di attentati. Ho paura. Ma non per me, poiché sono protetto. Ho paura per persone che potrebbero non essere protette e, proprio per questo, diventare bersaglio della violenza politica che, nel nostro Paese, non si è del tutto estinta», aveva osservato Maurizio Sacconi, l’allora Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, evocando così degli scenari terroristici. Bingo! Se un facinoroso, colto da distrazione, si fosse dimenticato di scagliare un estintore contro una vetrina alla prima occasione utile, Sacconi, sottile come una balena spiaggiata, con la sua pirla di saggezza almeno glielo aveva ricordato.
Da quale finissimo capello “pace sociale” smetteva di penzolare quale espressione vuota e diventava vita vissuta? Non sul capello dei ministri, dei deputati, dei senatori, dei politici di successo, dei capitani d’industria e dei giornalisti da salotto, impegnati tutto il dì a gustarsi Chupa Chups poiché benestanti: loro non potevano afferrare appieno il significato della locuzione “sopraffazione legalizzata” perché non avevano mai lavorato su turni in una catena di montaggio per 900 euro al mese. Non potevano sapere che cosa si provasse ad essere scambiati per sputacchiere umane nelle fabbriche e, di conseguenza, non conoscevano affatto la suscettibilità, la frustrazione e la rabbia che ne potevano conseguire. Erano dei dilettanti in merito e, dunque, se di ciò argomentavano con eccessiva fermezza, facevano dei passi falsi da operetta. Occuparsi di provvedimenti capaci di superare le tutele dello Statuto dei Lavoratori, oltretutto accendendo, nel contempo, micce di divisione sociale, poteva condurre alla mattanza…
Il 9 dicembre del 2011, la sorpresa di Natale. Un plico venne recapitato via posta a Marco Cuccagna, Direttore Generale di Equitalia, società deputata a gestire il servizio nazionale di riscossione dei tributi. Cuccagna lo aprì e questo esplose, staccandogli una falange e ferendolo agli occhi.
Ah beh, sì beh: Maurizio Sacconi, novello Nostradamus.

(Febbraio, 2012)

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