Mafia ad orologeria?

Che tempi, quelli d’inizio secolo. In principio era nientemeno che Roberto Saviano (mica quella vecchia cariatide di Hello Kitty, acciderbolina!): nel 2006, il suo “Gomorra”, bestseller à gogo, sbandierò quanto fosse stiloso per un boss della camorra assimilarsi a un antieroe dei gangster movies, con manifesta preferenza per il leggendario Tony Montana–Al Pacino di “Scarface”. Dal libro: “Se altrove ti può piacere ‘Scarface’ e puoi sentirti come lui in cuor tuo, qui puoi essere ‘Scarface’, però ti tocca esserlo fino in fondo”. Era patente come l’entità cinematografica – cool e sciccosa come un agnolotto al ragù – fosse seguita dai capicosca alla stregua di un modello mitologico da imitare, quale archetipo appartenente ad una fenomenologia evocativa. E, di conseguenza, germogliando da una zona mito così acconciamente coltivata, altrettanto incontrovertibile era, nei confronti dell’opinione pubblica, l’impattante (nonché morboso) potere comunicazionale dei fatti di mafia. Un potere gestito dai media? Beh, non solo dai media.
L’altro unto del Signore, al secolo Barack Obama, per meglio dire colui che sapeva parlare alla pancia degli americani (difatti tutti lo intendevano, perfino quei gran bietoloni dell’orso Fozzie e di Kermit la rana), aveva da tempo mangiato la foglia: in un’epoca in cui il mondo stava scivolando sul fondo della ritirata e nessuno si opponeva seriamente alla dissenteria collettiva, conveniva favoleggiare. Ovverosia: gabellare il cazzo per la cazzuola. Perciò, a cavallo di uno dei suoi più infausti picchi negativi di gradimento popolare, ecco che, nel maggio del 2011, il prodigio di Honolulu annunciò, guarda caso, l’uccisione di Osama bin Laden, capoterrorista di al–Qaeda, ad opera di un commando a stelle e strisce. Public enemy number one terminato, test del DNA e sepoltura in mare alla Ridolini, festeggiamenti e bagordi negli States: in sostanza, crediti presidenziali recuperati. Tutto vero. Si disse anche che Muammar Gheddafi, l’allora Raïs della Libia, il giorno dopo avesse interpretato in pubblico “La cucaracha”, addirittura inneggiando al Generale Pancho Villa, e che avesse concluso lo show con un carpiato in una fossa biologica. Vero pure questo.
Suppergiù nello stesso periodo, mentre il Cavalier Silvio Berlusconi stava elaborando in silenzio e con dignità il dolore lancinante per la fine della relazione amorosa con Valenshy, il Mini Pony rosa perlato, c’era chi realizzava degli intermezzi pubblicitari da antologia: il Ministro dell’Interno Roberto Maroni. Questi, nel corso del proprio mandato, aveva più volte rivendicato al Governo Berlusconi il merito di «una azione di contrasto alla mafia senza precedenti negli ultimi decenni». L’aveva rivendicato troppe volte, a dire il vero.
Il 13 maggio del 2011, la squadra mobile di Foggia e gli agenti del commissariato di Manfredonia acciuffarono Giuseppe Pacilli, considerato elemento di spicco della mafia del Gargano e ritenuto appartenente al clan Libergolis: guarda caso, proprio a ridosso del 15 e del 16 maggio, vale a dire delle elezioni amministrative in oltre 1.300 comuni della penisola. Maroni, che aveva molti difetti, ma di certo un pregio (quello della sincerità), affranto come una coppola nera, manifestò buia soddisfazione: «È stato assicurato alla giustizia uno dei più pericolosi latitanti in circolazione in Italia». Benedetto quel Ministro dell’Interno! Rilasciare dichiarazioni era per lui una rigenerazione artistica: all’assoluta frontalità della sua faccia si contrapponeva infatti l’aggressiva animazione del baffo, forgiando un poderoso effetto di insieme unitario, che tendeva ad annullare le autonomie e le asimmetrie dei particolari.
Nello stesso anno, per le commemorazioni della strage di Capaci, ossia l’attentato del 23 maggio del 1992 in cui avevano perso la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti della scorta, Maroni, plastico come non mai, con quegli occhialetti alla Austin Powers che controbilanciavano il contenuto drammatico dell’espressione del volto, approfittò dell’occasione per girare il consueto spot: «Negli ultimi tre anni abbiamo arrestato, grazie a polizia, carabinieri e magistratura, otto mafiosi al giorno in media e oltre trenta latitanti di massima pericolosità, senza dimenticare l’aggressione ai patrimoni della mafia». Guarda caso, uno spot realizzato proprio una manciata di giorni prima del turno di ballottaggio del 29 e 30 maggio, scaturito dai risultati del primo turno di votazione delle amministrative del 15 e 16 maggio.
12 agosto 2011: «Il nostro cuore gronda sangue quando pensiamo che il Governo non aveva mai messo le mani nelle tasche degli italiani: ma la situazione mondiale è cambiata, siamo di fronte a una sfida planetaria». Queste le parole di un Premier sull’orlo del pianto (un Cavaliere provato e tuttavia ancora impetuoso, che stava alla democrazia come Pierluigi Bersani stava a una coda di cavallo), proferite durante la conferenza stampa di illustrazione della manovra finanziaria più depressiva e più rimaneggiata della storia della Repubblica italiana. Come volevasi dimostrare: circa ventiquattro ore dopo, i carabinieri del Nucleo Investigativo di Napoli, guarda caso, catturarono il latitante Alessandro Iannone, reputato reggente del clan camorristico “Longobardi–Beneduce” di Pozzuoli (mica quel pacioccone dell’urside Po di “Kung Fu Panda”, perdindirindina!).
Gli stilosi e pericolosissimi Tony Montana (o, mutatis mutandis, la sagoma ectoplasmatica di bin Laden, nel caso statunitense), sia nascosti in piena luce che subdoli come zanzare tigre, servivano dunque per riesumare consensi quando il gradimento popolare dell’esecutivo colava a picco? Oppure per mietere voti in vista di elezioni? Mafia ad orologeria, quindi? Scandita presuntivamente da motivazioni politiche? Un’ipotesi forse argomentata in maniera artificiosa, forse del tutto destituita di fondamento, che però suscitava perplessità laddove insistesse nell’indicare la sospetta casualità temporale quale elemento comune.
Eppure sarebbe venuto il Giorno del Giudizio Universale. In cui, finalmente, alcune teste di casta avrebbero ammesso: «Io ero un mafioso». E, loro malgrado, mescolati dal fato alla schiuma dei gabbamondi e dei fuorilegge di ogni lignaggio e nazionalità, sarebbero stati giudicati anche loro: Giulio Tremonti e Angelino Alfano. L’uno, compiaciuto dei suoi ticket nervosi, sempre ad anatrare in televisione; l’altro, nomen omen (ma anche no), che per circa tre anni aveva guardato i sigilli: solo guardati, ci mancherebbe altro.
Ma pure la gente comune sarebbe stata sottoposta al giudizio divino nelle ultime ventiquattro ore dell’umanità. Tipo quei musulmani immigrati in Italia e rimasti con un pugno di moschee in mano. Tipo quelle Papi girls della politica che, in effetti, non si erano date alla cosa pubblica: quella cosa pubblica, più che altro, l’avevano data. Tipo la Knox del caso Kercher, che aveva firmato il soggetto per un video rock: tale soggetto per nulla al mondo parlava di un festino finito male. Tipo la Franzoni, che era stata condannata per calunnia per aver additato un vicino come autore del delitto del figlio: meno madre. Tipo la Banda Bassotti, Spank e i Puffi.
E quello stesso giorno, mentre esseri alati con spade di fuoco avrebbero diviso i buoni dai cattivi, persino Lui, dopo aver siglato il proprio monogramma cristologico da lasciare ai posteri ed essersi denudato il petto, si sarebbe inginocchiato sul nudo cemento del ponte sullo Stretto di Messina e, nel fulgore dell’Apocalisse, avrebbe confessato a squarciagola: «Accà nisciùno è fessooo!».

(Novembre, 2011)

Pecunia non olet… ma i comunisti sì!

Che tempi, quelli d'inizio secolo. In principio era il Cavalier Silvio Berlusconi: nel maggio del 2011, durante un comizio a Crotone per sostenere la candidata sindaco dell'Udc Dorina Bianchi, asserì, con la consueta carica sentimentale, che i vertici della sinistra «non è che si lavassero molto». Ed emanava raggi di luce intanto che profferiva ad alta e intelligibile voce una simile perla dello scibile, forse perché irrobustito dal sonno ristoratore che ogni dì gli intimava d'andare a letto con le galline, forse perché, proprio in quel mentre, ripensava commosso, sul filo della nostalgia, alla scamerita con osso di suina che aveva gustato la sera prima per cena. D'altra parte, da sempre, gli italiani accettano qualsiasi Premier: gettano il culo oltre l'ostacolo.
"Precari rossi", "toghe rosse", "stampa rossa": insomma, l'allora Presidente del Consiglio e i suoi guizzanti delfini li vedevano ovunque, questi sozzi "comunisti". Al punto che, per di più, il Capo del Governo aveva iniziato a fiutarli alla stregua del più ardito dei segugi, col fine di stanarli persino qualora si fossero eclissati nelle botteghe oscure del volgo informe o della plebe parlamentare. Magari per poi deodorizzarli, chissà.
D'altronde il Cavaliere – era universalmente noto, anche presso la tribù degli Tchambuli della Nuova Guinea – aveva assoluta dimestichezza col popolo italiano: lo conosceva come le sue cosche. E, oltretutto, pressappoco musica di arpe divine, aveva il dono della parola cortese, mai ringhiante, e di orientarla al cuore degli italiani (sebbene, in verità, mirasse regolarmente al didietro). Difatti, un mesetto dopo la kermesse di Crotone, rivendicando i meriti dell'esecutivo sul fronte della gestione dei conti pubblici, aveva strombazzato con volitiva moderazione: «Se sapessero quello che il Governo ha fatto per loro, gli italiani dovrebbero farci un monumento». Che ingrato. Perché gli italiani, il monumento, glielo avevano non solo fatto. Ma anche recapitato. Al volo.
Nel giugno del 2011, a Roma, nel corso del Convegno Nazionale dell'Innovazione, il Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione Renato Brunetta, dall'alto della sua abilità diplomatica, segnatamente distinta da una toccante tolleranza su tutta la linea, aveva così apostrofato alcuni lavoratori appartenenti alla Rete Precari della Pubblica Amministrazione: «Siete la peggiore Italia!». Del resto, erano "precari rossi"...
«L'ennesimo scandaloso episodio di una forsennata aggressione che viene portata avanti da anni contro mio padre»: in questa maniera reagì il Presidente della Fininvest Marina Berlusconi, passata alla storia come la paladina dei più accaniti detrattori del botox, all'indomani della sentenza del Lodo Mondadori, che aveva condannato la holding del Biscione a risarcire la Cir di Carlo De Benedetti di 560 milioni di euro. "Toghe rosse" alla riscossa...
E la "stampa rossa"? Beh, anche i "giornalisti rossi" si erano dati parecchio da fare. Avevano occultato la notizia bomba. Che notizia? Questa: nel maggio del 2011, a Crotone, il Presidente del Consiglio aveva smascherato l'untuoso "diavolo rosso" e serviti su un piatto d'argento i delitti dei "compagni" contro il popolo italiano. Ovverosia: i comunisti, non lavandosi molto, causavano l'aumento delle tariffe dell'acqua!
Nell'Italia dei primi anni del XXI secolo, infatti, le società gestivano il Servizio Idrico Integrato alle condizioni economiche stabilite dalle Autorità d'Ambito: queste condizioni prevedevano che tali aziende recuperassero i costi connessi al servizio che le Autorità stimavano e fissavano per la gestione del servizio stesso. Detto recupero era garantito mediante una tariffa prestabilita applicata ai consumi idrici dell'utente, che quest'ultimo pagava in bolletta.
Alla fine d'ogni triennio di gestione, le società consegnavano alle Autorità d'Ambito i dati per verificare i valori economici risultati a consuntivo. Se i ricavi realmente conseguiti erano superiori a quelli fissati in precedenza dalle Autorità, le aziende restituivano nel triennio successivo la differenza. Viceversa, se erano inferiori, queste li recuperavano nel triennio seguente. Semplificando: in caso di maggiore fatturato realizzato, la differenza veniva restituita diminuendo la tariffa nel triennio successivo; analogamente, le società recuperavano il minore fatturato conseguito maggiorando la tariffa del triennio seguente.
Ma se i comunisti non si lavavano molto, non consumavano tanta acqua; se non consumavano tanta acqua, pagavano importi bassi di bolletta; se pagavano importi bassi di bolletta, le aziende che gestivano il Servizio Idrico Integrato ricavavano un minore fatturato; e quindi, le società, legittimate nel tutelare il proprio equilibrio economico–finanziario, dovevano aumentare le tariffe. Porco mondo! Per colpa di quei maramaldi dei comunisti, le tariffe dell'acqua lievitavano! E a farne le spese erano tutti gli italiani!
Che atrocità. Quale barbarie. Urgeva imprimere una svolta nella storia del Belpaese con una denuncia ferma e risoluta: il Premier l'aveva capito, poveretto. Col tempo sarebbero sbiaditi i ricordi delle agghiaccianti persecuzioni dei "mangiatori di bambini". Avrebbero finalmente prevalso l'alfa e l'omerda della luce, della verità, dell'amore. A Crotone giustizia era stata fatta, insomma.
Invece, nulla. Perché l'implacabile "stampa rossa" aveva insabbiato tutto. C'era riuscita con un gioco di prestigio, cioè dirottando l'attenzione degli italiani sul libro, appena appena agiografico, "Scilipoti, re dei peones", che, come se già il cognome non fosse bastato, si fregiava di una zuccherosa introduzione del Cavaliere, enfatizzata con tanto di fascetta editoriale. E, immantinente, i "giornalisti rossi" fecero serpeggiare anche lo strumentale pettegolezzo secondo il quale fosse pure in cantiere un altro volume, stavolta sulla vita strappalacrime di Silvio Berlusconi, il cui presunto titolo avrebbe dovuto suonare vieppiù così: "La mi' fava sa di menta". Che gentaglia, quella "stampa rossa".
Eppure, rileggendo la storia dell'Italia di quei tempi, non poche perplessità ci attanagliano. Una, in particolar modo. "Precari rossi", "toghe rosse", "stampa rossa": ma tutti questi "comunisti" che il Cavaliere e i suoi ameni pupilli vedevano o annusavano... in realtà, dove cazzo erano?

(Aprile, 2012)

Introduzione alla Corazzata Potëmkin

Diversi piantacarote al settimo cielo hanno tentato di turbare la mia pazienza rifilandomi domande birichine circa il titolo di questa rubrica. Orbene: “La Corazzata Potëmkin” prende le mosse da una celebre battuta cinematografica del ragionier Ugo Fantozzi (vale a dire: «Per me la Corazzata Potëmkin è una ….ta pazzesca!»). Vomitata in faccia a chi abusa con assurda prepotenza della propria posizione costringendo i subalterni a sorbirsi, al posto della disputa calcistica degli azzurri, una tra le opere più alte del cinema mondiale: “La Corazzata Potëmkin” del regista russo Sergej Ejzenstejn. Una perla, senza dubbio. Ma poco apprezzata dagli impiegati della “Fantozzìade”, vuoi per la comprensibile preferenza verso il gioco del calcio, vuoi per – nella finzione cinematografica – l’agghiacciante durata del film, da anorgasmia. Insomma, l’“apprezzamento” di Fantozzi è una stilettata liberatoria contro le incresciose birbanterie che da tempo immemore gravitano intorno al potere, una battuta infelice che racchiude tanta disillusione. Quella di coloro che – considerati a priori di serie B per ragioni spesso inconsistenti – sono costretti a muoversi nella boscaglia più zozza e contaminata (o nella Repubblica Democratica di Brasilia, se preferite), schietti e senza paura come cinghiali. Cinghiali liberi – o perlomeno persuasi d’esserlo – che corrono disperati per viottoli difficili, lungo i quali i sogni e gli ideali più alti non sono ancora evaporati. Cinghiali che corrono sì a perdifiato, sì con furioso entusiasmo, tuttavia senza spezzare un solo fiore o un ramoscello e, si badi bene, senza far male a una mosca. Cinghiali che vedono il mondo con occhi di cucciolo; ovverosia, fuor di metafora, uomini che vedono il mondo con occhi di bambino. E di come va il mondo si meravigliano, coscienti che le cose dovrebbero andare in tutt’altro modo.
Arduo da capire? Allora, quale ideale proseguo di questa introduzione insaporita di riferimenti cinematografici, al fine di facilitare la comprensione del succitato disegno eccomi tosto, in virtù del gentile contributo dell’amico Paolo “Paolino” Ruffini (affermato personaggio dello spettacolo e critico cinematografico di livello), a consigliarvi un bel film: “Dogville” di Lars Von Trier. Vale a dire «una di quelle rare esperienze che prescindono dalla settima e diventano arte pura, prima al di là (dello schermo, della scenografia, della recitazione), poi al di qua (nel nostro intimo, nella nostra vita). “Dogville” è un assoluto sullo scibile umano, sugli stereotipi di noi stessi nelle vesti dei personaggi delle nostre realtà, sui cliché che violentano il nostro primordiale buon senso. Un film che “fa teatro” al cinema e si distacca da modi e tecniche per un “unicum” – non è un amaro medicinale – illustrato e mai didascalico, disadorno ma narrato nel dettaglio. “Dogville” sembrerebbe dunque un capolavoro, partorito felicemente da questo regista danese in trasferta che non si vende e neanche si noleggia, il cui sguardo politico e favolistico dà una lezione di stile ad una America che fa sempre il bello e il cattivo tempo alla faccia dell’Europa».
Che dire, quindi? Guardate “Dogville” senza pregiudizi. Così capirete anche perché “per me la Corazzata Potëmkin è una ....ta pazzesca”. E scoprirete che tutto risiede soltanto nel fatto d’essere o meno capaci – o nell’avere il coraggio – di vedere il mondo con gli occhi di un bambino.

Uova di lompo... addio!

Smessi i panni del primo della classe (sicuro, ma in dottrina delle pete col fischio), stavolta intavolerò un discorso come un qualsivoglia poverocristo col cervello a cui mancano 3 centesimi per fare 1 euro. Già, gli euro. Vale a dire i talebani del conquibus, quelli che – ahimè – hanno soppiantato il bonolissiano “vecchio conio”. Ebbene: è noto che il carovita posteriore all’introduzione dell’euro abbia smussato in tutta l’Unione delle Brasilie l’approccio dei cittadini verso i consumi. E i nostri connazionali hanno già iniziato a risparmiare anche sulle spese familiari fondamentali, addirittura tirando la cinghia su ciò che, soltanto alcuni anni fa, non avrebbero mai toccato: il cibo. I brasiliesi hanno infatti ridotto il superfluo perfino a tavola, prediligendo sempre più gli acquisti presso la grande distribuzione (si potranno ancora gustare in ogni casa, a mo’ di stravizio, le uova di lompo, succedaneo del caviale?). Un trend del genere è di certo deprimente, specie se si pensa che, probabilmente, tutto ciò non è accaduto per caso: forse Orwell, Huxley e Zamjatin avevano ragione. Prendiamo la libera imprenditoria: nella nostra incredibile Repubblica Democratica di Brasilia la libera imprenditoria ha assunto il profilo d’un “business d’élite” poiché, ad eccezione dei grossi imprenditori (la maggior parte dei quali ha tuttavia il fiato corto), i piccoli manager cadono a uno a uno, a centinaia, giorno per giorno. Ed ecco tosto un bell’esempio: per mettere su un dignitoso e ben ubicato esercizio commerciale d’abbigliamento in franchising occorrono, come capitale iniziale, all’incirca 400mila euro. Ma chi cazzo ce li ha 400mila euro? Agli italiani che cosa resta, dunque, se non fare i dipendenti? Ed è qui che vi volevo, cari miei bazzicabarbieri: un popolo di dipendenti difetta, suo malgrado, di spina dorsale, perché senza dubbio si scopre più soggiogabile e manipolabile, specialmente se ottenebrato da funerei mutui per la casa e prestiti–capestro. In termini socio–politici, un “paese disossato, senza vertebre” (espressione usata da Giovanni Sartori) si governa assai meglio. Insomma, abbiamo legato l’asino dove voleva il padrone. E il governo del Cavaliere Parapaponzi ha trovato la strada spianata e così è durato oltre ogni previsione. In altre parole: uova di lompo... addio!

Tutti pazzi per la topa?

La vita è come recensire un libro. Chi scrive recensioni del cazzo perde tempo. E non meno di chi fa recensioni di libri del cazzo. Insomma, de facto, qualcosa di già successo ci accompagna: a noi tocca soltanto commentare la solita tiritera dell’esistenza. Per esempio, prendete la topa: gli uomini non smetteranno mai d’essere alla sua mercé. Poiché, in genere, ciò che d’una donna rende smidollato l’uomo è la sua natura rapace, è la presunzione incalcolabile, è il disarmante egoismo, è la lacrima di coccodrillo, è la menzogna sulla punta della lingua, è la vaghezza dei suoi desideri e delle sue virtù; e non c’è niente da fare perché queste peculiarità (più o meno marcate a seconda della pulzella) rientrano ad hoc nel lato peggiore della cosiddetta “femminilità”. Gli artigli di tigre (sotto il guanto) d’una damigella sono assai audaci: una ragazzina astuta può addirittura lasciare intendere – ai penosi piantacarote che le credono, s’intende – d’essere rimasta gravida per caso, quando magari ha smesso volontariamente di gozzovigliare pillole anticoncezionali da mesi... Ma è d’obbligo ammettere che esistono pure donne vere, trasparenti. Come Han, per l’appunto. Interprete coreana fresca fresca di master, la conobbi durante un convegno. Era una ragazza della cui squisita femminilità non discorrerò affatto: sarebbe arduo per me trattarne. Quando le rivolsi la parola per la prima volta, non sapendo di che argomentare, balbettai qualcosa circa il terminale di rigassificazione off–shore al largo della costa livornese, «un progetto che – mie parole testuali – inficerà nientemeno che la frega delle orate». Una occidentale mi avrebbe mandato subito a quel paese. Lei invece, afferrando la maldestra ironia, rise di gusto; e un pochino mi stregò. Han, per me, è stata unica. Lei, con la sua fragrante sensualità, mi ha fatto sempre pensare: «O cosa ho trombato finora? Una vagonàta di polpi?». Lei, al contrario d’una mia vecchia fiamma che non toccava la vetta del piacere nemmeno col free–climbing, era capace di venire così tante volte che pareva un mitra. Ma, in primis, lei non è mai stata ipocrita: ciò che diceva era in linea col suo agire. Insomma, quando apriva bocca, non mi faceva struggere di depositare fecalomi grossi come cani a cuccia. Tuttavia, come spesso accade, un bel giorno la favoletta finì: Han, infatti, dovette far ritorno dalle sue parti... Incidentalmente, sapete che cosa vuol dire “Han”? Beh, si tratta d’un termine coreano intraducibile nella nostra lingua che, ironia del destino, significa “tristezza e speranza, nostalgia di felicità passate e fiducia in un riscatto futuro”.

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