Internet che cambia la vita

Livorno. Chi di voi si ricorda il film "Sliding doors" con Gwyneth Paltrow? In questa pellicola la protagonista si trova davanti a due porte scorrevoli della metropolitana: salire o meno a bordo rappresenterà per lei un successivo sviluppo esistenziale di natura diversa. Quindi le porte scorrevoli del metró simboleggiano la via d'accesso a un differente destino: il destino, "quel misterioso organizzarsi d'una logica implacabile per un futile obiettivo", per dirla con Joseph Conrad. Insomma, quante volte ci siamo chiesti che cosa ne sarebbe stato di noi se, per caso, avessimo deciso di varcare una soglia anziché un'altra? Chissà: magari, aprendo questa porta invece di quella, nella peggiore delle ipotesi saremmo durati meno d'un talebano a Guantanamo. Chi può dirlo. Ma se, parlando ancora sotto metafora, a una comunissima "porta" noi sostituissimo un qualsiasi "portale" web ? Vale a dire: anche i milioni d'accessi virtuali di Internet sarebbero capaci di cambiarci la vita così come le porte scorrevoli di "Sliding doors"?
La casa dei sogni. «Per me e mia moglie – ci fa notare il 33enne Federico Menichini, responsabile del controllo qualità e della contabilità industriale presso la Sipa di Milano, livornese doc oggi residente a Parabiago, nel milanese – Internet ha rappresentato una finestra aperta sul nostro domani. Perché ci ha permesso di realizzare un sogno: mettere su la nostra bellissima casa». «Erano mesi – racconta – che stavamo cercando su Internet una nuova casa, che fosse più spaziosa e confortevole di quella che possedevamo: una casa adatta alle nostre esigenze, magari col giardino. Una sera, dopo il lavoro, ci mettemmo a visitare i tanti siti web del settore immobiliare. Le offerte erano molte, ma nessuna pareva fare al caso nostro. Delusi, andammo a cena, lasciando il PC acceso su una pagina web. Finito di cenare, mi ricordai di aver lasciato il PC acceso. Andai per spegnerlo, ma subito mi accorsi che su quel sito era comparsa un'offerta interessante: forse quella di un impiegato che faceva gli straordinari? Per farla breve: quella sarebbe diventata la casa dei nostri sogni». Dunque Internet è un fenomeno socio–culturale soggetto a continue emorragie d'opportunità, di risorse, di passioni. O almeno così pare. Poiché ogni nuovo strumento tecnologico ha sì valenza positiva, ma solo a patto che non se ne faccia un uso irresponsabile o, addirittura, distorto. Ma, perlomeno adesso, a noi non interessa trattare casi di cronaca nera. Vogliamo occuparci piuttosto del caso, del destino, del cosiddetto "fato". Di ciò che ci è riservato se imbocchiamo una strada piuttosto che un'altra. Concetto ripreso, tra l'altro, dal format TV condotto da Enrico Ruggeri "Il bivio – Cosa sarebbe successo se...", tuttora in programmazione su Mediaset.
Il progettista di siti web. E Federico Bellamacina, 27 anni, livornese di razza, dice di conoscerlo quel programma condotto da Ruggeri. Forse perché, grazie a Internet, la sua esistenza è mutata sensibilmente, un po' come quella dei protagonisti di quelle vicende: «Ho passato diversi anni della mia vita in giro per l'Italia e all'estero, cambiando lavoro in ogni città per vivere. Poi, fortunatamente, nel Natale del 2003 mi è stato regalato un PC. E da allora la mia vita è cambiata a tutto tondo». Già, perché adesso Federico è un vincente. Non ha mai un minuto libero. È titolare di www.kwd.it, una web agency tutta sua. Fa il web coordinator, cioè crea e coordina siti web. E, parallelamente, collabora come grafico pubblicitario con l'agenzia di pubblicità Aep, presente "on the net" all'indirizzo www.aepubblicita.it. «Ho imparato tutto da solo, studiando e lavorando sodo», ci confida. E aggiunge: «Dopo anni di duro lavoro, sto raccogliendo i frutti di tanto sacrificio. E tuttavia, giorno dopo giorno, continuo ad approfondire le mie conoscenze informatiche nel settore grafico e, soprattutto, in quello dei motori di ricerca. Una delle mie più grosse soddisfazioni? Quando un sito progettato da me si posiziona ai primi posti proprio nei motori di ricerca».
L'alfiere della rete. Ma c'è una persona alla quale Internet ha davvero cambiato la vita in maniera radicale: si chiama Alessandro Cirinei, altro livornese di scoglio. Un websurfer di 36 anni che parla alla perfezione inglese e francese e ha nel taschino una laurea in economia aziendale conseguita presso l'Università di Pisa e due titoli di studio "made in England": una laurea in Business Economics e un master in tecniche imprenditoriali e strategie aziendali, entrambi guadagnati in quel di Reading. «Dopo Reading – racconta Cirinei – iniziai a lavorare per Dell Computer, a Londra. Un' esperienza che mi dette la possibilità di scoprire Internet come strumento di vendita intorno alla metà degli anni Novanta, periodo in cui il web era ancora agli albori». Ma, nel '98, ecco la svolta: cominciò a lavorare nel campo delle risorse umane alla Michael Page di Milano. Due anni dopo, in pieno boom della new economy, venne però attratto dalle sirene di Internet e perciò si unì alla tedesca Jobpilot, allora number one in Europa nel settore del recruitment online. «A soli 32 anni, mi ritrovai a Parigi a gestire le filiali francesi, belghe e inglesi in qualità di amministratore delegato», dice. Nel 2004, archiviata anche Jobpilot poiché riteneva insopportabile «l'acquisizione dell'azienda da parte di Monster, la sua più tremenda rivale», Alessandro approdò a Milano con l'incarico di direttore marketing e Internet business presso Editoriale Secondamano, attiva nel settore degli annunci web e su carta.
Livorno, primo amore. Ma, recentemente, Cirinei ha lasciato anche Secondamano. E si è messo in proprio. «Insieme ad alcuni esperti di marketing e tecnologia web – spiega – ho fondato Live Shape. Con Live Shape vogliamo anticipare le tendenze con prodotti web innovativi, che pongono al centro l'utente e la sua necessità di vendere il suo usato in maniera veloce ed efficiente». Lo scorso settembre, Live Shape ha infatti lanciato il sito www.adboom.it, mediante il quale l'inserzionista può scegliere il media più adatto per "piazzare" il suo annuncio: ovvero può pubblicarlo simultaneamente su diversi siti Internet di annunci, web magazines, giornali e riviste. «Non a caso, di recente, abbiamo siglato un accordo proprio col gruppo Espresso», rivela Alessandro. «I soldi e l'affermazione – osserva – sono importanti. Ma ciò che mi stimola di più è realizzare prodotti efficaci lavorando in squadra». «Però senza la famiglia, le amicizie e l'amore – ammette – non avrei mai potuto affermarmi. I miei genitori mi hanno sempre incoraggiato. E sono sempre rimasto in contatto con Livorno e con i miei amici, non ho mai smesso di passare i weekend estivi a Quercianella o di andare allo stadio, anche a costo di prendere l'aereo». «Però sono davvero grato – conclude – a una persona in particolare. Quando lavoravo per Jobpilot ho fatto una grossa crescita professionale per meriti, ma anche grazie a Davide Villa, all'epoca vicepresidente di quell'azienda. La cosa curiosa è che questo manager, nonostante sia cittadino svizzero, ha vissuto i primi 14 anni della sua vita proprio a Livorno e, nonostante parli 6 lingue, ha mantenuto intatto il suo accento labronico. Forse è stata questa affinità a creare un sodalizio che per me è stato molto positivo».

Canna e lenza per sentirsi Hemingway

Livorno. «Vergine Benedetta, prega per la morte di questo pesce, per meraviglioso che sia». È una delle battute più emozionanti de «Il vecchio e il mare» di Ernest Hemingway. Un passo in cui l'anziano pescatore esprime con tutto il cuore il proprio oceanico amore-odio per la sua preda, stupenda e terribile a un tempo. Emozioni che soltanto i pescatori di razza possono raccontare d'aver provato. Pescatori di razza come i livornesi, la cui vocazione marinara è inossidabile, essendo il grandangolo della loro tradizione. E per rendersene conto basta fare una capata sugli Scali d'Azeglio, presso la sede provinciale della «Fipsas» («Federazione italiana pesca sportiva e attività subacquee»), capitanata dal presidente Andrea Lami.
Livorno, «fucina di campioni». La «Fipsas» è un organismo risalente al Dopoguerra, che oggi contempla la pesca marittima, fluviale, lacustre e subacquea di Livorno, provincia e Isola d'Elba. E che, contando ben 1.400 iscritti distribuiti tra i 45 circoli del territorio che aderiscono alla «Federazione italiana pesca sportiva / Coni», risulta a tutti gli effetti il più rappresentativo a livello toscano. Soprattutto in virtù dei portentosi «assi della lenza» che, durante questi 50 anni, hanno portato la città di Livorno sugli scudi di mezzo mondo, facendole guadagnare la nomea di «fucina di campioni». Lo scorso anno, infatti, non a caso su 5 componenti della nazionale, 3 erano livornesi. Le specialità dei fenomeni di casa nostra? «Canna» e «pesca dalla barca», nelle quali i campioni labronici danno del filo da torcere a chiunque su scala mondiale. E per gli altri, di solito, son proprio «teste e lische».
Una passione in crisi. Ciononostante, eccezion fatta per l'attività subacquea, si tocca subito un nervo scoperto: difatti la partecipazione alle competizioni sportive è, ahinoi, in calo. Tra i motivi, in cima alla lista le spese da sostenere in trasferta, quasi del tutto a carico dei singoli. Ma anche, per quanto riguarda i più giovani, il calcio e la pallacanestro che, ovviamente, vogliono i ragazzi in campo nei week-end, proprio in concomitanza con le gare di pesca. Per correre ai ripari e, catalizzando la loro passione, prendere all'amo i giovani, la «Fipsas» organizza già da 2 anni, in accordo col Comune, dei corsi per ragazzi (la maggior parte dei quali ha 11-12 anni ed appartiene ad alcune scuole medie statali cittadine), naturalmente allo scopo d'insegnare loro i rudimenti della pesca sportiva.
I «prodigi del mulinello». I corsi della «Fipsas», che sono del tutto gratuiti, hanno registrato quest'anno 38 presenze e riprenderanno regolarmente verso la fine dell'estate. Iniziative lodevoli, non c'è che dire, il cui aspetto formativo non è affatto marginale poiché da lezioni di questo tipo emergono molti insegnamenti in seno al rispetto per l'ambiente e per il prossimo; uno su tutti, per esempio, il gesto nobilissimo di restituire la vita alle prede più piccole. E oltretutto perché questi corsi permettono ai più dotati di diventare degli autentici «prodigi del mulinello», magari in quelle specialità che adesso vanno per la maggiore nel livornese, come la «canna da riva» o il «surf-casting» (tecnica - quest'ultima - che si esegue dalla spiaggia con canne da lancio e con esche a fondo).

E il livornese è un po' samurai

Livorno. Indole liberale e insolente a un tempo, carattere guascone nonché spigoloso e, soprattutto, spirito battagliero alle stelle; così sono i livornesi, proprio una razza a parte, traboccanti d'una forza fuori del comune. Una forza la cui genesi, attraverso le gesta di coriacei «risicatori» e arditi mercanti provenienti da ogni pertugio del mondo, si perde nella notte dei tempi. E che oggi è più viva che mai, specie in ambito sportivo. Dunque, sintetizzando: culto della forza, spirito competitivo e fibra multietnica. Ingredienti genuini che, oltretutto, possono spiegare come mai in città siano così tanti gli appassionati di quelle discipline d'oltre stivale in cui è lo scontro fisico a farla da padrone: vale a dire, le arti marziali.
Secondo Claudio De Simoni, presidente dell'associazione culturale no-profit «La Livornina» di via del Forte S.Pietro — che conta oggi 160 iscritti ed è stata fondata nel '98 per valorizzare la storia e le tradizioni di Livorno tramite studi, conferenze e cortei in abiti d'epoca — questa propensione tutta labronica per le discipline marziali ha radici storiche. «Intorno al 1585 — spiega — arrivò in città una delegazione di «Figli del Sol Levante», comitiva di orientali convertiti al Cristianesimo. Da noi fecero soltanto tappa, poiché intendevano raggiungere Roma per incontrare il Papa. Ma la zona piacque loro così tanto che, in seguito, alcuni si stabilirono qui e dettero vita a una sorta d'ambasceria del Sol Levante alla corte del Granducato di Toscana. Il resto è venuto da sé. Perché noi livornesi abbiamo saputo apprendere di tutto da tutti e certe inclinazioni sono rimaste inscritte nel nostro Dna, comprese quelle verso le arti marziali».
Massimo Rizzoli, titolo mondiale di «boxe tailandese» e di «kick boxing», combattente dell'arte marziale brasiliana «vale tudo» e vertice dell'associazione sportiva «Rendoki» (che a novembre inaugurerà la nuova sede in via Grotta delle Fate), osserva che «benché «sanguigni» e poco diplomatici, i livornesi non sono cattivi d'animo: sono dei non-violenti. È vero che prediligono gli sport da combattimento perché questi permettono loro di misurarsi fisicamente. Ma, in genere, li praticano senza serbare rancore e senza imprimere violenza oltremisura. In altre parole: si fa sì a cazzotti, ma alla fine si va a prendere il caffè insieme». A ruota il parere di Maurizio Silvestri, 8° Dan di ju jitsu, direttore tecnico dello «Zen club» di via Piombanti e istruttore di guardie del corpo e reparti militari operativi: «Perché i livornesi hanno così tanta voglia di misurarsi? Da un lato, per il carattere esuberante, per il bisogno innato di competizione. Dall'altro, scavando nel passato, per la necessità d'essere sempre pronti a difendersi da qualsiasi attacco; basti pensare ai tremendi arrembaggi dei saraceni». Infine, l'opinione di Damiano Morelli, istruttore di «wing tzun» della palestra «Matrix» di via della Padula, dapprima esperto del sistema Leung Ting poi professionista nell'ambito del wing tzun della «Ebmas» di Emin Boztepe e, di recente, trainer per alcune forze speciali: «Come ogni città portuale anche la nostra è sempre stata in continuo contatto con diverse etnie e culture. Ai tempi in cui i nostri mari venivano solcati da orientali, africani e «corsari» d'ogni dove, ciascuno dei quali con diversi costumi, religioni e stili di vita, secondo me era inevitabile che, per continuare a mantenere il «modus vivendi» della città, vi fossero delle lotte molto aspre. Nelle quali emergeva giocoforza un forte spirito battagliero, che è arrivato fino a noi».

Umberto Rina, il parrucchiere di Armando Picchi

Livorno. «Mi sono sempre rifiutato di fare la barba ai miei clienti. A tutti, tranne che a Armando Picchi». Affabile, simpatico, verace: a parlare è Umberto Rina, parrucchiere labronico conosciuto in città. Il quale, durante l'arco della sua vita, ha visto transitare dalla propria attività molti personaggi che hanno fatto la storia di Livorno. Nato nel 1927, oggi Rina si gode la pensione con la moglie Maria Lupi, da bravo «babbo» non sa nascondere una tangibile fierezza nei confronti del figlio Giacomo (che gestisce il negozio d'abbigliamento «Bolgheri» di via Marradi), e passa il tempo coltivando le passioni della sua vita, ossia il canto, la musica classica e l'amore per la pittura. Del resto ha impugnato i ferri del mestiere per quasi cinquant'anni, prima nella bottega di piazza G. Paolo Bartolommei (dal '57 al '65), poi nell'esercizio di via Ginori (dal '65 al 2003), sempre come titolare. E di «pezzi da novanta» ne ha conosciuti, e non pochi. Primo fra tutti, Armando Picchi, calciatore livornese leggendario, del quale fu amico e con il quale condivise le scorribande di gioventù.
«Armando - racconta - era una persona meravigliosa: intelligente, schietto, dall'animo buono. Io e lui eravamo davvero amici. Mi ricordo che una sera cenammo ai Bagni Fiume - c'erano, tra gli altri, Mario Picchi, Enrico Capecchi, Giuliano Campi, Niki Martinelli e Massimiliano Ferretti - e, dopo, improvvisammo una partitella fuori dello stabilimento. Avevamo il pallone nel sangue, non si poteva fare a meno di giocare. In palio? La cena, è chiaro. Profondamente religioso, una volta «Armandino» mi trascinò addirittura alla Messa di Natale. E un'altra volta andammo tutti insieme in una «casa chiusa» vicino all'ospedale. Ma Armando non si smentì affatto: infatti, non entrò».
Eh, sì. Perché un campione si riconosce dal cuore. E dal coraggio, dall'altruismo, dalla fantasia. Armando Picchi era questo e anche di più. Era un «libero»; gente pregiata del calcio, di quelli che hanno il pallone prima nel cuore e poi tra i piedi. Il suo viso scavato da marinaio divenne la bandiera d'una compagine che ha fatto la storia del calcio italiano. All'Inter dal '60 al '67, il carisma e il talento da fuoriclasse lo vollero capitano nerazzurro. In seguito, militò a Varese. Ma il destino non fu tenero con lui. Nel '68, a Sofia, un grave incidente, durante un incontro con la nazionale, ne stroncò la carriera. Dopo aver vinto tre scudetti, due coppe europee e due coppe intercontinentali, poteva diventare un grande allenatore. Iniziò col suo Livorno, in serie B, nella stagione 1969-70, a campionato iniziato. Gli amaranto navigavano in cattive acque, ultimi dopo il girone d'andata. La squadra si salvò, chiudendo al nono posto. Fu allora che arrivò, dall'alto, una proposta fantastica, che lui accettò. E così, a soli 35 anni, sedendo sulla panchina della Juventus, Picchi divenne l'allenatore più giovane della serie A. Purtroppo, però, su quella panchina durò pochi mesi: difatti un male incurabile lo strappò anzitempo alla vita. «Armandino», comunque, è stato un campione come oggi non ce ne sono più. Perché una volta l'universo del calcio era un'altra cosa e anche i calciatori che emergevano erano un'altra cosa.
«Armando - prosegue Rina - accompagnò nella mia bottega anche alcuni suoi colleghi dell'Inter, tra i quali Jair Da Costa, Luisito Suarez, Tarcisio Burgnich e Aristide Guarneri. Rammento persino che a Suarez insegnavamo i modi di dire livornesi... e anche qualche parolaccia».
Ma altri «pezzi grossi» hanno calpestato le mattonelle del negozio di Umberto Rina. Chi? Per esempio, Costanzo Balleri (detto «Lupo»), altra stella labronica del pallone, il maestro Paolo Ghiglia (del quale Umberto possiede tre quadri), gli imprenditori Tito Neri e Cesare e Marcello Fremura. Aneddoti curiosi? Si sprecano. Come questo: «Accanto alla mia attività c'era la birreria dei soci Gino e Cesare, dove i portuali - tra cui diversi personaggi noti della Livorno che fu, come i Brondi, i Miniati e i Vanni - andavano a prendere le note con le quali venivano chiamati a lavorare. Loro sbirciavano pian pianino le note e, una volta riconosciuto il proprio nome, data la poca voglia di lavorare, sbattevano forte il pugno sul bancone. Quanti tavoli rotti! E che risate!»
Risate gustose che Umberto fa ancora adesso quando gioca a carte con gli amici Pinucci, Ferretti, Gambacciani, Agretti e Pizzi. Tra una litigata e l'altra e, soprattutto, tra un amarcord e l'altro.

Sessanta anni di storia di Livorno, la racconta il "barbiere rosso"

Livorno. «Ma lo sai che...»: quante volte, dal barbiere, queste parole hanno fatto da incipit a un serissimo dibattito politico, a un gossip tutto corna e gollettóni oppure a un aspro battibecco incentrato sul fuorigioco «che c'era o non c'era»? Tante volte, specie anni fa, quando gli artigiani della barba impazzavano. Per chi non ha la fortuna dei ricordi personali, oggi si può tuttavia rimanere ancora rapiti da quella malinconica nostalgia del tempo che fu. Basta mettere piede in una delle ultime botteghe da figaro «vecchio stampo» ed è come versare gazzosa sulla pelle abbrustolita dal sole; un'esperienza agrodolce, da brividi. D'altronde le epoche si susseguono, una dietro l'altra, e alcuni aspetti della vita sono destinati giocoforza a cambiare: «purtroppo», come aggiungerebbero quelli della vecchia guardia. Ma, si sa, questo fa parte del gioco, della naturale evoluzione del costume. Così, piano piano, agli stilisti del capello brillantato si sono sostituiti gli esterofili «coiffeur» ed «hairstylist» dalle insegne arcobaleno e dagli interni alla moda, nella quasi totalità dei casi «unisex». Entrare nel negozio d'un parrucchiere della vecchia scuola è però tutta un'altra cosa. La porta disadorna, di vetro trasparente; le poltrone beige e gli specchi scelti col gusto per l'essenziale; i recipienti smaltati e i vaporizzatori per l'acqua di Colonia; tutti particolari che di primo acchito sembrano freddi, ma che invece, se ben soppesati, si rivelano più caldi e romantici d'un caminetto nuovo di zecca. Semplicemente perché sono legati alle nostre radici.
Il taglio «alla Buse». «Prima della Seconda Guerra Mondiale – ci racconta il barbiere in pensione Guido Bruschi, classe 1920, Cavaliere dell'ordine al merito della Repubblica Italiana – si facevano molte barbe; cosa che ci faceva lavorare tanto e guadagnare poco. Pensate che era usanza fare gli abbonamenti: 8 lire per 10 barbe. E, data l'enorme affluenza di clienti che volevano la pelle liscia durante il giorno di festa, si stava aperti anche la domenica. Qualche numero? Nel '38, nel negozio che avevo in subaffitto in via Mastacchi, contavo 120 abbonati, che erano pari a circa 400 servizi alla settimana». Livornese purosangue, Bruschi è ancora noto in città come il «barbiere rosso», soprannome che gli fu dato sia per il colore dei capelli, sia per la lunga e intensa attività politica svolta prima nel Pci e poi nei Ds, soprattutto nel sociale. Tra i fondatori della Confederazione Nazionale Artigianato, è stato perfino giornalista collaboratore de «L'Unità». Eccolo qua, dunque: un vero personaggio, di quelli sanguigni. Che, come se non bastasse, avendo avuto a che fare con forbici, pennelli e rasoi per ben 64 anni (interrotti soltanto dalla chiamata alle armi durante la Seconda Guerra Mondiale), può oltretutto dire d'averne viste delle belle anche sul versante delle mode. Un assaggio? «Dal '30 al '35 la maggior parte dei clienti voleva l'acconciatura «alla Mascagni», cioè la chioma alta e fluente proprio come quella del celebre musicista. Invece, a partire dal '37, la gente iniziò a chiedere i capelli «alla Buse» o «alla Busoni», vale a dire a spazzola, come li portava il calciatore del Livorno Giovanni Busoni. Fuori città la stessa acconciatura si chiamava però «alla Umberta», dal taglio di capelli del re d'Italia Umberto II di Savoia».
Barba e capelli: 3 lire. Guido Bruschi iniziò a «bazzicare» i negozi di parrucchieri nel 1930, lavorando come ragazzo di bottega nel salone «Corsi» di piazza Grande. Niente di che: inizialmente faceva le pulizie e portava l'acqua per fare le barbe, cose così. E proprio allora il piccolo Guido conobbe Nedo Nadi, leggenda olimpionica della scherma. Dal '35 in avanti, facendo pratica presso altri saloni, il giovane Bruschi entrò prima a far parte di quella truppa di giovanotti chiamati a quei tempi «bardotti» (considerati a metà strada tra il lavorante e il bimbo di bottega) e poi divenne lavorante a tutti gli effetti. Ma fu il 1938 che lo vide fare il salto di qualità, quando riuscì ad ottenere in subaffitto l'attività di via Mastacchi di Leonardo Leonardi, parrucchiere che andava e veniva dal carcere perché comunista. Tutto filò piuttosto liscio (botte dei fascisti a parte) fino a che, all'inizio del conflitto mondiale, il ragazzo venne mandato al fronte, in Sicilia. Al suo ritorno a Livorno, scoprì però che la bottega di via Mastacchi era stata distrutta dai bombardamenti. Da qui – correva il lontano 1944 – la decisione d'aprire, stavolta come titolare, un negozio di barbiere in via Provinciale Pisana. Dove lavorerà sino al 1994, vantando così, in tutto, quasi 64 anni di mestiere. Un lavoro fatto con passione, pieno di soddisfazioni, che gli ha consentito di farsi una bella famiglia. Anche se, a onor del vero, tra guadagni contenuti e svolte epocali non sempre è stato tutto rose e fiori. «Prima della guerra – ricorda – il taglio dei capelli costava 2 lire. Mentre barba e capelli venivano 3 lire. E, a quel tempo, non esisteva fare lo shampoo: tanta brillantina alla Rodolfo Valentino e via. Ma, nel Dopoguerra, ecco il giro di boa: la gente cominciò a farsi la barba a casa con le lamette usa e getta. Il che fu l'inizio della fine per la professione del barbiere intesa in senso stretto. Dei 600 esercizi di barbiere che c'erano a Livorno dopo la Liberazione, oggi, nel 2006, ne sono sopravvissuti una decina». Certo, in città con la vecchia autorizzazione ne sono rimasti circa 10: dato confermato anche da Donatella Calò dell'ufficio coordinamento mestieri e adesioni della Cna.
Gli anni '50 e la politica. Eh sì: era finita un'epoca. E subito ne era iniziata un'altra, però. Negli anni '50 la tipica attività di barbiere cominciò a cambiare le proprie sembianze, perdendo mano a mano il lato che la rendeva, come dire, più «frivola». Si politicizzò, smettendo gradualmente d'essere soltanto un luogo di socializzazione e iniziando ad assumere il profilo d'un ritrovo animato da accesi dibattiti politici. Mentre prima del conflitto, oltre a chiacchierare per ore di tutto, poteva capitare che in un salone – naturalmente gremito di clienti – si giocasse una partita a carte sopra un tavolo in un angolo o che s'intonasse una canzone popolare accompagnata da un mandolino, nel periodo della Guerra Fredda «la mia bottega di Fiorentina pareva una sezione del Pci», ammette Bruschi. Niente più allegri bivacchi, quindi. Né racconti di presunte vincite ai cavalli o prestazioni sovrumane con ragazze avvenenti. Bensì tanto impegno politico sul campo, a volte esasperato. Durante gli Anni di Piombo in tanti passarono dalla bottega del «barbiere rosso». Alcuni di loro, col tempo, ebbero successo in politica: tra i più recenti, ricordiamo Marco Susini, oggi deputato diessino. Ma, in seguito, ecco l'altra svolta epocale. Intorno agli anni '80, per via del boom dei saloni «unisex», a Livorno molti barbieri della vecchia guardia chiusero infatti i battenti. E, di conseguenza, nelle botteghe di acconciature la componente politica andò via via scemando.
Meglio oggi. Al di là della politicizzazione, dalla fine della guerra in poi anche diversi artisti divennero clienti di Bruschi: tra questi, l'attore di vernacolo Gino Lena e il povero Ascanio Citi, cantante scomparso prematuramente che sfondò a livello nazionale. Insomma, come già sottolineato in precedenza, in più di 60 anni di lavoro Guido Bruschi ne ha davvero viste di cotte e di crude, da ogni versante. Quindi, dal punto di vista esclusivo di chi ha maneggiato forbici per oltre mezzo secolo, che ci potrà mai dire della vita del barbiere? Meglio oggi o meglio ieri? «Oggi – osserva Guido – gli acconciatori stanno meglio di ieri. Difatti non c'è più quella sudditanza tra cliente e parrucchiere che, un tempo, ci imponeva di soddisfare qualsiasi capriccio dell'uomo seduto sulla poltrona e, oltretutto, di sopportare la sua boria, specie se era una persona in vista. Un esempio? Quando, qualche anno prima del '38, ero lavorante presso il salone «Carlozzi» di via Grande, dovevamo aspettare i clienti fino a mezzanotte perché l'opera al teatro Goldoni finiva a quell'ora e c'era chi pretendeva di farsi la barba dopo lo spettacolo». «Inoltre adesso – conclude – un parrucchiere guadagna piuttosto bene. Ai miei tempi, invece, si incassava pochino. E, per di più, si lavorava come muli: dopo una maratona di 60 barbe dalle 8 alle 14 – magari di domenica – un barbiere era sfinito, non sentiva più le mani».

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